L’ansia
spirituale sottaciuta in questo misticismo della pittura non può
non cozzare dolorosamente con la scarsa resistenza e debolezza dell’uomo.
Così l’ostinata resistenza della insipidezza e della grossolanità
racchiuse nel quotidiano delinearsi delle congiunture trova spazio in
un mondo ideale dove il classico ci è modello. L’identica
improrogabilità del vivere e del dipingere può introdurre
elementi eterodossi rispetto all’intuizione originaria di un’immagine/forma
iniziante del processo creativo. Trattasi di elementi degni di attenzione
che, sicuramente, abbozzano quadri globali diversi da quelli prospettati
dal mondo. All’artista il compito più alto di guidare, fino
a suscitare -anche all’interiore dei percorsi freddi- variazioni
iconografiche e pittoriche importanti soprattutto sul piano iconologico.
La variazione dal tema dei classici (cui si affianca, come si vedrà,
il concetto della poesia) nasce, in questo senso, come motivo propriamente
pittorico ed immerge le sue riflessioni in situazioni di tipo psichico,
delineandosi come una nuova e svagata immaginativa.
Qualcosa di somigliante è del resto risaputo alla pittura. Si pensi
al Manierismo che ha al suo fondo questo umanissimo contrasto formale
e morale fra il primato delle cause formali e l’incapacità
epocale di uguagliarla. Dissidio che si trascinerà fin agli albori
del Barocco, rappresentandosi anche più diffusamente come divario
tra terra e cielo, fra vita e morte. Paradigmatico il Canestro di frutta
del Caravaggio che segna forse l’istante più acuto e simbolico
di questo patimento. In esso il tema della magnificenza naturale assume
significati ontologici nell’evidenziazione dell’inizio di
un suo acre e pungente logoramento. Nel Bacchino malato il tema di un’ambigua
verità suggerisce, con il precedente, lo scandaglio di un mondo
interiore in cui bellezza e verità vivono come desiderio e bisogno
inappagabili, aggredibili dal dubbio, dal senso di smarrimento e di paura.
E così che la bellezza, portatrice dell’essenza stessa della
vita, finisce col confondersi col senso della morte e ad adombrarne il
presagio. Disgiunta da un destino divino, la bellezza non è un
assoluto, ma la nostalgia di esso. E qui che il sentimento può
anche smarrirsi, o la ragione intridersi di ironia.
Anche questi sono spazi della creatività. L’immagine che
la mente intuisce e intravede e subito perde, viene trattenuta dalla pittura,
ma la riduzione inevitabile dis-vela una bellezza guastata e in ciò
più intensamente e psicologicamente vera. E come la frutta in Caravaggio,
in altro tempo e in altro ambito, la Leda in L’amore coniugale di
Moravia, al quale non fugge mai la smorfia, o il gesto, o il tic che,
modificando quasi lievissimamente un’immagine, in realtà
la stravolge rivelando, non senza fare sorgere inquietudine, un’inconcepibile
e celata potenza generatrice. Di confronto tutto immateriale con la autenticità
fa sorgere il dramma e, soprattutto, l’inquieto e amletico interpellarsi.
E non è accidentale che l’Amleto sia corrispondente a livello
cronografico al Canestro di frutta; così come non è involontario
che Chiara Rita Benedetta delinei nelle sue Genesi un’atmosfera
shakespeariana. «Il resto è silenzio» pronuncia Amleto
prima di esalare l’ultimo respiro. E il silenzio cala dalla tragedia
di Amleto a quella intima di ogni possibile spettatore; così come
sprigiona il Canestro di frutta e così come emanata da qualsiasi
opera umana che metta in congiunto e sfuggente rapporto l’esistenza
e la morte, l’ordine ed il caos, il naturale e l’insensato,
il celestiale e il diabolico.
Chiara ha bisogno di silenziosità poiché nello spazio della
sua tela la lotta tace. Vede ancora i dissidi, ma ora può rivolgere
lo sguardo verso l’alto. Tutto ciò mi riporta recentemente
Chiara Rita Benedetta, il carattere delle figure è l’infinitezza,
a volte evocante forme dell’infanzia, il senso di sempiterno che
ha sconfitto il frastuono regge lo spazio in un astratto non essere. In
questa dimensione si fa largo il volo in silenzio. Fino a dimenticarsi
di sé e del mondo, come una mistico divendo Altro. Ed il conflitto
tra spirituale e corporeo è irrisolvibile. Da qui il tragico. Ma
anche la abbondante forza dell’immaginazione.
L’irreparabilità del combattimento e la successiva dimensione
tragica stabiliscono i termini della “questione pittura” in
Chiara Rita Benedetta. Il silenzio non è pace, né sosta,
piuttosto uno spazio e un tempo ove “i demoni” (nell’accezione
greca del termine) non facciano opposizione di guardare verso l’alto,
e l’artista abbia la capacità di registrare la “sensazione
dell’eterno”.
La pittura è il luogo di questo spazio e di tale tempo differenti,
in cui totalmente si destabilizza ed acquista valore oscuro e canzonatorio.
Ma questo “sconcertamento” è solo un’immagine
periferica della pittura di Chiara Rita Benedetta, la conseguenza non
marginale di un radicato atteggiamento poetico. Si desidera confermare
che nessuna volontà precostituita influenza questo scoordinamento
spaziale e questo sconcertamento dello spettatore, che sono come fatti
sorgere, irrimediabilmente, da una maniera - questa sì relativa
a un programma: di mettere in chiaro e quindi rappresentare ciò
che l’immaginazione mette insieme quando la lotta fa silenzio e
lo sguardo si rialza. La pittura di Chiara Rita Benedetta non va, allora,
vagliata meramente nei suoi aspetti di comunicazione.
Le sue ragioni sono sempre da scandagliarsi nel recondito della riflessione
solitaria dell’artista e quindi all’interno della pittura.
E per questo le sue opere sono certamente ineplosive e non esplosive,
da leggersi in margini psicoanalitici e quindi in rinvio anche all’inconscio,
ma soprattutto al principio fra esso e la coscienza, dove l’Artista,
come in una visione onirica, si sottrae dalla natura, dal mondo e persino
da sé. Come Alice entra nello specchio, dove tutto è già
adocchiato, ma dissimile, e la consapevolezza stessa delle cose si perde
nell’ambiguità del loro indecifrabile rendersi noto. Questo
è forse il tema regnante della poetica di Chiara Rita Benedetta:
sciogliere aspetti ed enti da quella che lei chiama “Richiami del
Mito”, perchè consentano di intravedere “un altrove
illimitato”, a cui l’arte volge la sua attenzione.
A tale scopo Chiara Rita Benedetta adopera ogni mezzo pittorico atto all’individuazione
dell’indefinibile e weiningeriana tenacia delle cose. La stessa
costruzione prospettica, pure fortemente presente all’artista, procede
continuamente negata dall’intersecazione di piani, così che
si viene ad abbozzare uno spazio inverosimile (ma indiscutibilmente non
immobile), dove non è acconsentita una descrizione incessante o
comunque sorretta da uno allargamento razionale. Si traccia così,
da subito, una posizione anticlassica ed antirinascimentale, per un verso
rinviabile alla narrazione della pittorica senese –del 1300-, ma
soprattutto apparentabile a tutta la poetica dell’assurdo nell’arte
e nel teatro del Novecento. L’evocazione non di oggetti o figure,
ma della loro enigmaticità, è certamente dechirichiana.
Come De Chirico Chiara Rita Benedetta pare non conoscere le cose che dipinge,
o quanto meno non accoglierle come dati incontrovertibili dell’oggettività,
bensì come nuove e successive occasioni di scandaglio di un mondo
tutto da decifrare, perchè enigmatico. Ogni cosa pare indossare
«due aspetti: uno corrente quello che vediamo quasi sempre e che
vedono gli uomini in genere, l’altro lo spettrale o metafisico che
non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di
astrazione metafisica. [G. De Chirico, Sull’arte metafisica, in
‘Valori Plastici’, n. 4-5, 1919]». La meta-fisica, nel
senso più letterale del termine, quale metodo per restituire possibile
una vera conoscenza del mondo presente è fortemente sostenuta da
Schopenhauer che la considera «un sapere attinto dal reale mondo
esteriore e dall’esplicazione che di questo fornisce il più
intimo fatto dell’autocoscienza» [A. Schopenhauer, Die Weltals
Wille und Vorstellung, voi. I!, librol, cap. XVII, Leipzig, Brockhaus
1859, p. 200].
La relazione con la metafisica, nel senso sopra descritto, vale a contenere
un ambito di rimando a cui è doveroso far cenno, senza, per altro
spingerci oltre. Le stesse parentele con il Surrealismo non possono che
essere accolte indeterminatamente, continuando insistentemente che in
Chiara Rita Benedetta una spiccata inclinazione ad una pittura di pensiero,
non direttamente in connessione col miraggio o consumabile nell’inconscio.
Si tratta piuttosto, come si è detto, della comprensione dell’enigmaticità
delle cose, con il successivo spaesamento che ne deriva. Il carattere
fortemente dinamico ed energico che, comunque, tale situazione mantiene
riferisce, se mai, consanguineità con il linguaggio e la struttura
formale non con la poetica - dei futuristi.
Il ritmo incalzante, le strutture rigorose e l’inclinazione, specie
nelle opere ultime, per una pittura filamentosa sono tutti ingredienti
del primo Futurismo e possono, nel nostro caso, a schiarire una situazione
artistica complessa, ricca di occorrenti e persistenti richiami storici
che possono aiutare ad abbracciare la sostanza della storia pittorica
di Chiara Rita Benedetta e la sua non estraneità alla tradizione
lombarda.
In questo senso - e anche in riferimento al futurismo (n.d.r.: non si
dimentichi che Chiara è figlia d’arte, la madre è
Pittrice espressionista ed il nonno un allievo di Pio Semeghini, Arturo
Martini e Marino Marini all’ISIA monzese) “miscelato subito,
e per necessità espressive, ancor prima che per necessità
culturali al cubismo” - è doveroso ripensare soprattutto
a Sironi, alle sue
angolose volumetrie, alle corrispondenti spazialità e soprattutto
al suo periodo metafisico, nonché, come si è detto, ai suoi
lavori futuristi.
Un’opera come Autoritratto trova nel contesto che si è venuto
fin qui delineando, alcune delle sue ragioni fondamentali. La convergenza
delle diagonali sul piano quasi frontale della grande immagine consente
- unitamente al cono della luce dei fanalini e alla filamentosità
della pennellata gessosa
- non improbabili raffronti col Futurismo. E per restare all’interno
dei riferimenti già fatti, pare lecito guardare al Cavallo e Cavaliere
di Sironi (1915). In Ciclista la situazione spaziale è comunque
diversa, per un allentarsi della tensione (si vorrebbe dire anche del
rumore) che concede alle forme di delinearsi in una spazialità
più enigmatica che compressa. Il valore metafisico delle forme
- come non far cenno a Carrà? - è volto alla definizione
di una situazione resa sconcertante non solo e non tanto dal dito nel
naso, quanto dall’attuarsi di ciò che già si è
detto in merito alla variazione della forma. Non un punto di vista, ma
più punti di vista; non un dato verisimile, ma il continuo gioco
della deformazione, per consentire la percezione di nuove e recondite
verità di quell’altrove indefinito cui, come si diceva, Chiara
Rita Benedetta si volge. In questo senso il dito del naso ha lo stesso
valore dei piani sghembi, di quelle porte che non potranno mai chiudersi,
ma anche della smorfia della Leda di Moravia o dell’iniziale guasto
della frutta di Caravaggio. Situazioni in cui il tempo non scorre, perchè
tutto avviene lì, senza che sia possibile considerare il prima
e il poi. Esiste solo il presente dell’immagine dipinta e la sua
possibilità di evocare eternamente l’ambiguità della
vita.
Chiara Rita Benedetta deve il suo debito formativo ai classici: Ifigenia
in Taurine, la tradizione greco-mitologica è permeata in tutta
la poetica di Chiara, il tema della caduta in un abisso (o del risucchio
da esso) è ancora sironiano. L’oro luminoso della donna,
o forse con le braccia levate, tenta di risalire; la memoria dell’adulto
ritrova l’inquietudine del bambino di allora. La caduta di Chiara
Rita Benedetta sconfina nell’assurdo, e questo è logicamente
estraneo a Sironi. Ma in Chiara Rita Benedetta vi è anche l’influsso
del Nord, e soprattutto dell’Espressionismo tedesco. Quest’opera
si colloca precedentemente alle altre di questa rassegna. Vale ad individuare
una poetica, ma è artisticamente più immatura. Chiara Rita
Benedetta qui non ha ancora scoperto sino in fondo le potenzialità
del segno, e soprattutto soffre di horror vacui. Nelle altre opere la
liberazione dei valori propri della pittura e del colore gli consentiranno
di dilatare, senza per questo rinunciare a comprimere, gli spazi, così
che il tema dello spaesamento non sarà consegnato solo ad un’azione,
ma ad ogni elemento della combinazione e ad essa stessa nel suo insieme.
Il tema della caduta, o della gravità dei corpi, ricorre in ogni
opera di Chiara Rita Benedetta. Figure senza peso, liberate dalla corporeità,
aleggiano (o nuotano, o annaspano) nel cielo in una giostra che è
la vita. Il silenzio esercita il dominio, assoluto, mentre i dati minimali
della luce evocata dai filamenti cromatici che escono dai suoi supporti,
assumono valore emblematico, forse simbolico.
Le scene si delineano come apparizioni sacre ed è fuor di dubbio
lo scontro fra l’elemento celestiale e il dato accidentale. Il dubbio
amletico non perde vigore, ed anzi si accolla delle diverse apparizioni
un’intonazione di struggente nostalgia.
I grandi occhi dei suoi “Autoritratti” chiedono: in quale
luogo?, mentre l’attesa pare dominare i silenziosi dialoghi e lascino
pure intravedere un altrove indefinito. Lo spazio –determinato con
decisione dai gesti che paiono richiamare una rinnovata action painting-
evoca nuove vorticose forme che si muovono tra loro in sospensione, creando
un’armonia obliqua superiore. Volano in cerca di un cielo immenso
medievale che non trovano ancora nei miei dipinti. Là il frastuono
della rissa è lontano. Silenzio.
L’immagine ritratta è al centro della composizione, ed una
serena impassibilità o stasi ispira i suoi lineamenti, configurandola
come una santa della pala d’altare. Ma poi tutto è sconvolto
dall’apparizione (angelica o demoniaca) che irrompe come contrasto,
disordine. Ritornano alla mente due versi di Paul Valéry: (...)
«deux dangers ne cessent de menacer le monde:/l’ordre et le
désordre».
Nella Donna l’elemento frastornante (le désordre) non è
tanto la mano che distrattamente finisce nel vaso, quanto quella sorta
di trance in cui la donna pare persa e che specifica il gesto sbagliato.
Ma ancor più interessante è il contrasto fra la rigida e
geometrica spazialità del divano con la linea curva della figura.
Tutto ciò non ha un tempo, solamente accade, disvelando in sé
l’allarmante rapporto fra la razionalità (simboleggiata dalla
rigida, anche se improbabile, geometria) e il trance, o sensuale smarrimento
della coscienza.
In Donna blu, come nella Grandi nuotatrici di Carrà e nelle Piccole
nuotatrici di Carrà, Chiara Rita Benedetta sfida, con il medesimo
rigore, tematiche nuove. Il nascondimento come dato ineludibile della
permanenza in vita, definisce modificazioni tecniche importanti, quali
il ridursi in frantumi leggero ed impalpabile della pennellata, curvilinea,
l’articolarsi più mosso del segno e la scoperta di un colore
più denso, più sporco. Ma il nascondimento ha valore anche
a rivelare sembianze differentemente inavvertibili, i molteplici e possibili
volti in Donna blu, la natura angelica dell’umanità, e comunque
un’atmosfera vibratile, attinente di un effusivo e lieve ascoltarsi
mentale. Il riferimento alle Nuotatrici di Carrà del 1910-12 è
un dichiarato omaggio di Chiara Rita Benedetta al Futurismo, ma anche
la denuncia di un’affinità insospettata con molta pittura
contemporanea, in cui si pone in termini discutibili un nuovo rapporto
con la figurazione. Ma è opportuno serbar ricordo che dalla figurazione
Chiara Rita Benedetta disloca, con un percorso che è quindi in
senso contrario a quello cui si accennava. E la sua diviene una figurazione
mentale, si è visto, volta da un lato a scoperchiare il vero ambito
della vita e dall’altro a dis-velarne l’inganno. Il firmamento
si può desiderare, ma non possedere poiché "da
una parte c’è il sole e dall’altra parte il nulla!"
[Ifigenia in Tauride]».
Prof. ALESSIO VARISCO
Artis magister
qui sopra: Chiara Rita Benedetta,
"Maria Donna innamorata", 2000, tecnica mista
su tavola, 70 x 100 cm.
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