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«Jean René Beguin è un fantasioso personaggio francese che ha tenuto di recente una conferenza sull’ipotesi alchemica della fotografia rifacendosi al sale quale elemento sostanziale dei primi processi e del mare da dove ha inizio la vita, anche per i Miti. Il mare, l’acqua, la purificazione, lo spurgare, il sole quale equipollente all’oro e l’oro espressione figurata dell’onnipotenza, rinvio ad un’età antica… Sciogliere gli ormeggi dal positivismo, allontanarsi da assurdi attrezzi di ancoraggio, alla insensata richiesta di ratifiche comprovabili, si riesce a seguire il percorso che dall’immaginario ci conduce all’illusoria tangibilità della fotografia. La tesi appare dunque affascinante. Non è priva, infatti, di una sua verità. Stimola il pensiero a intraprendere indagini nella terra incognita, tutti sono consapevoli che esiste una regione inesplorato, ma nessuno lo ha mai visto. Anche se in molti lo cercano. Ed il compito della fotografia? Fra consapevolezza ed eventualità di trasfondere comunicati sicuri esiste un vuoto di conoscenza che è colmabile solo grazie alla speculazione intellettuale. E non è proferito, tantomeno dimostrato, che l’indagine della mente sia manchevole nei confronti dello dimostrazione scientifica anche perchè la scienza dimostra ciò che la mente ha ipotizzato possa essere, beffardamente, la fotografia è limpidezza di un assurdo a-scientifico: per un verso, ne conosciamo bene i meccanismi fisico-chimici; per un altro, l’immagine fotografica può individuare realtà che non esistono. Non esistono? Ma se sono state fermate, queste realtà, su un foglio di carta e, quindi, sono tangibili per gli occhi, mi chiedo quanto sia verosimile il confine fra l’esistenza degli oggetti e la loro non esistenza. E’ chiaro che ci presentiamo nel regno delle immagini mentali, ne siamo stati proiettati come nello specchio di Alice, che si materializzano in altre immagini per tutti coloro che le vedranno. Il pittore, ed ogni artista, che affida il proprio pensiero visivo alla trascrizione della mano, con semplicità decifra il problema della rappresentazione dell’universo “dell’incoerente coerenza”, semmai si dovrà scontrare con la propria abilità o con la frustrazione della propria inadeguatezza. Ma la fotografia è comunque legata a ciò che esiste ed è straordinaria l’avventura di creare immagini irreali con Forme ed Elementi della Realtà. Vi è in questo miracolo un qualcosa di alchemico: comuni e banali fotografie convertite in raffigurazioni di magiche visioni quale prezioso oro scaturito da vili metalli o elisir di lunga vita composto con frammenti di volgari sostanze. Ed ecco che la fotografia diviene allora l’elisir di lunga vita –a lungo ricercata, in Praga, nelle corti europee- per quella sua unicità di trasferire per sempre il presente. Non a caso la prima ricerca di Alessio Varisco si riferiva alla memoria. Memoria di eventi vissuti od immaginati, sovrapposizioni di frammenti reali e di recuperi fabulistici in cui a quarta dimensione, spazio/tempo, si dispiega- va con naturalità davanti agli occhi dell’osservatore. In questa nuova indagine, Varisco, per conseguente evoluzione dei processi di approfondimento, abbandona l’elaborazione della sfera subliminale per avvicinarsi all’interpretazione soggettiva dei suoi modelli che non sono più vecchie fotografie degli album di famiglia, impressioni vaganti nell’interregno fra coscienza e recupero onirico, ma personaggi di autentica carnalità, paesaggi, pezzi di tele, barche, i suoi monti. Sono ritratti in improbabili contesti, improbabili non tanto perchè di invenzione, piuttosto perchè disgressivi rispetto all’ambientazione abituale. Non vi è nulla di straordinario nel vedere un albero d’olivo che ha al suo interno un cielo terso, e tantomeno, inserito fra quegli stessi alberi un suo autoscatto pensoso. E’ che Alessio Varisco costruisce un’immagine in cui i piani della prospettiva sono stravolti con abile gioco di sovraimpressioni fotografiche. E’ un’altra realtà non meno attendibile di quella che le costrizioni della visione prospettica ci hanno obbligato ad organizzare nella nostra mente. Però, quante immagini fantastiche e ricche di stimoli ci perdiamo “rimettendo ogni cosa al suo posto” per automatismo convenzionale? Mi ritorna in mente “Bello come l‘incontro casuale di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio.” diceva Lautrèamont e mi ritorna in mente un altro pensiero che non è mai entrato nei saggi sull’arte: “Perchè un tavolo ed una finestra possono fare l‘amore e procreare una forbice? Secondo la logica, e la superficiale esperienza del mondo sensibile che abbiamo, non è possibile, ma qui vi è uno squisito gioco linguistico: il tavolo è maschio e la finestra femmina. Teoricamente, i due individui di sesso opposto, potrebbero incontrarsi e vivere un’avventura di sesso. In alcuni idiomi, I inglese e l’ungherese ad esempio - ed il pensiero è di una signora ungherese - tutti gli oggetti sono di genere neutro. Si crea quindi nella mente, che si adatta a tradurre in una lingua diversa, una costruzione della natura aberrante. Eppure è semplice per Max Ernst: “Una realtà compiuta di cui l’ingenua destinazione ha l‘aria di essere stata fissata per sempre (l’ombrello) trovandosi di colpa in presenza di un’altra realtà assai diversa e non meno assurda (una macchina per cucire) in un luogo dove tutte e due devono sentirsi estranee (un tavolo operatorio) sfuggirà per questo stesso fatto alla sua ingenua destinazione e alla sua identità; essa passerà dal suo falso assoluto, per il giro di un relativo, a un assoluto nuovo, vero e poetico: l‘ombrello e la macchina per cucire faranno l’amore. La trasmutazione completa, seguita da un atto puro come quello dell’amore, si produrrà forzatamente tutte le volte che le condizioni saranno rese favorevoli dai fatti dati: accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse.” (da “Le surréalisme au service de la révolution, Parigi n.6). Quando Alessio Varisco inserisce i suoi soggetti in contesti estranei e vanifica le leggi dei rapporti dimensionali realizza “un assoluto nuovo, vero e poetico” che ci svela il meccanismo misterico del suo immaginario. Ma l’operazione che egli compie nella scelta dei vari fotogrammi da ricomporre in armonia in una immagine originale - e certamente “originaria” nel senso di embrione per ulteriori sviluppi - è simile ad un fantastico atto d’amore che libera le capacità individuali di correlazione. L’estetica surrealista che si risolve nel prodotto dell’arte parte dal principio della distruzione o sconvolgimento dell’identità oggettuale. Tuttavia, al contrario dei surrealisti che pretendevano la creazione quale automatismo psichico e, quindi, non controllata dalla razionalità, l’opera di Varisco è il risultato di uno profonda e cosciente indagine visuale. In alcune immagini il trasporto lirico domina in morbide ed impalpabili trasparenze cromatiche, in altre invece la precisione degli elementi risalta in netti contorni. La flessibilità della risoluzione visuale è indice di una ricerca che deve coniugare concetto e forma per risolvere il problema della “messa in scena” del significato. Di certo si è soggiogati dalla malìa di un incanto che penetra nei segreti meccanismi dei vivificanti rapporti fra realtà tangibile e realtà intime. La terra incognita dell’individuo». CHIARA RITA BENEDETTA Direttore Editoriale di Técne Art Studio |