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Basilica San Vincenzo di Galliano

Battistero di San Giovanni Battista

Galliano di Cantù (Como)

   
Il toponimo Galliano deriva dai Galli che, infiltrati nella pianura padana nel 388 a.C., qui eressero un loro villaggio. Gli scavi archeologici condotti in questi luoghi, però, hanno dato alla luce soprattutto testimonianze romane diventate assidue dopo il 196 a.C., anno in cui Marco Claudio Marcello conquistò Como.

Ad iniziare dalla metà del V secolo d.C. alle are ed alle iscrizioni che provavano il culto di Giove, della Triade Capitolina, di Minerva e di alcune divinità locali, si cambiarono le prime epigrafi in cristiane.

Esisteva, quindi, un edificio sacro dedicato a San Vincenzo di Saragozza -il cui sorgere è tra il V ed il VI secolo- con annesso un battistero. Da queste costruzioni deriva anche il pavimento a piastrelle geometriche di marmo bianco e nero, rimesso in uso nel presbiterio sopraelevato della Basilica e nel Battistero, ancora esistente sotto il pavimento in cotto.

La Chiesa, così come attualmente conosciuta, si iniziò a riedificare nel X secolo: risalenti a questo periodo le navate su cui Ariberto d’Intimiano, intorno al Mille, fece innestare l’abside e la cripta. E fu riconsacrata Basilica dedicata a San Vincenzo proprio da Ariberto (nato nel 970 circa, fu vescovo di Milano dal 1018 al 1045), allora suddiacono e “custode” del sacro fabbricato, che probabilmente ne era il possessore per tradizione familiare. Di ciò si avrebbe una riprova dalle epigrafi graffite sotto agli affreschi dell’abside che ricordano la morte del padre, del fratello e del nipote di Ariberto.

L’edificio religioso divenne chiesa pievana e sede del Capitolo dei Canonici, inoltre per diversi secoli San Vincenzo di Galliano godette speciale affetto tra i Canturini che diedero in dono terreni ed altre proprietà: la donazione più antica è risalente al 1284.

Nel 1584 il Capitolo ed il Prevosto si trasferirono alla chiesa di San Paolo a Cantù, dopo che San Carlo Borromeo, vescovo di Milano dal 1560 al 1584, trovò la Basilica e le case canonicali in condizioni di semiabbandono. Durante la visita pastorale del 1616, il cardinale Federico Borromeo, dispose alcuni restauri per far durare la chiesa dalla rovina, purtroppo queste sue istanze non furono eseguite.

Nel 1801 il complesso architettonico -durante la dominazione francese- fu venduto a privati, dopo che la commissione artistica, formata dall’architetto e decoratore G. Albertolli, dal pittore A. Appiani e dallo storico L. Bossi, giudicò la Basilica di “niun riguardo”.

Ed il complesso del San Vincenzo di Galliano fu così convertito in casa colonica. La perdita della navatella meridionale, del campanile e, limitatamente, degli affreschi distrutti o deturpati dalla calce furono le più grosse perdite che ancora oggi ci testimoniano –quasi cicatrici- lo snaturamento e l’aggressività subito dal Tempio.

Si deve ad un vicario foraneo di Cantù -Don Carlo Annoni- si interessò all’antica costruzione inserendola dettagliatamente e facendone eseguire copia di tutte le pitture nel suo studio del 1830 Monumenti e riti politici e religiosi del borgo di Canturio, pubblicato a Milano nel 1835.

Solo dal 1909 la Basilica fu rientrata in possesso dal Comune di Cantù. I primi restauri, condotti dall’architetto Ambrogio Annoni nel 1933-34, permisero di riaprire la chiesa al culto. Nuovi restauri agli affreschi della navata eseguiti a più riprese negli anni 1955, 1956, 1967, 1981, hanno portato al distacco di alcuni dipinti che, trasferiti su pannelli di masonite, sono stati collocati sulle pareti originali.

Le Storie di Sansone e di S. Cristoforo sono opere di due artisti che lavorarono poco tempo dopo il Maestro dell’abside alla cui opera si ispirarono.

La cripta è uno dei primi esempi conosciuti con pianta ad oratorio. E’ divisa in tre navate da quattro esili colonne con capitelli risalenti ad un periodo compreso tra la fine dell’VIII e il IX secolo; le campate irregolari sono coperte da crociere su archi trasversi. In questo luogo Ariberto mise, in occasione della consacrazione del lt)07, le spoglie di Sant’Adeodato, dei sacerdoti Ecelesio e Manifredo e del diacono Savino, già sepolti nella chiesa preesistente. Una lapide posta sulla fronte dell’altare della cripta ricorda solennemente il fatto solenne (oggi è sistemata sulla parete della navatella vicina alla porta, poco distante da quella funeraria di S. Adeodato, morto nel 525).

Le reliquie di Sant’Adeodato e dei primi cristiani canturini furono traslate nella chiesa di San Paolo il 29aprile 1634. Sulla parete, vicino alla scaletta a sud, si trova l’immagine di una venerata Madonna del latte, forse dell’inizio del XIV secolo. Sulle paraste, che reggono gli archi delle campate, si trovano figure di Santi ad affresco riconducibili alla metà del XIII secolo.

Dirimpetto alla Madonna del latte erano presenti affrescati un Santo vescovo tra due diaconi, poi staccati e trasportati sulla controfacciata, riconducibili al secondo quarto del XIV secolo.

Sempre sulla controfacciata, rispettando la posizione originaria, si conserva l’affresco coi Santi: Maria Maddalena, Veronica , Orsola e Primo dipinti intorno alla metà del XIV secolo.

Le due navate ancora esistenti risalgono alla prima metà del X secolo. Ne sono prova la tecnica edilizia usata, grandi pietre in spessi letti di malta, e le nicchie a timpano che si trovano all’esterno nella parete settentrionale della navata maggiore, non infrequenti nell’architettura tra il VII e IX secolo. Inoltre è limpidamente visibile che tra i muri della navata centrale e l’arcone trionfale non vi è estensione lineare di costruzione, ma che questo è addossato a quelli. I lavori sostenuti da Ariberto agli inizi del Mille constano nell’innalzamento dell’attuale arco trionfale e del centrale abside. La parete esterna dell’abside è ricamata da arcate cieche dove le alte lesene (circa 5 m.) hanno un mero valore decorativo. Tra le lesene si aprono le finestre della cripta, a livello del suolo, e sotto le arcate quelle interne dell’abside.

Anticamente si estendeva davanti alla Basilica anche un quadriportico che fu eretto presumibilmente durante l’età aribertica: il modello del sacro edificio che Ariberto tiene sollevato nelle mani presenta una torre campanaria ed un accenno di portico. Ciò è altresì dimostrabile dagli ultimi resti (già nel XVIII secolo non esisteva più il quadriportico antistante l’ingresso) di una parasta sulla facciata, a sinistra della porta centrale, e la ghiera che scavalca la porta tappata della navata minore.

L’interno è dominato dall’alto presbiterio sotto cui si stende la cripta costruita simultaneamente all’abside. Le pareti della navata centrale sono sorrette da tarchiati pilastri, semplici blocchi di pietra, su cui poggiano le arcate; il grande arco, sul lato vicino alla facciata, fu aperto alla fine del XIV secolo. In alto alcune delle finestre originarie vennero otturate, una solo limitatamente, per destinare agli affreschi una superficie più dilatata.

Fino alla metà del secolo scorso esisteva un’iconostasi, composta da due colonne corinzie sormontate da un’architrave di legno, che divideva la navata maggiore dal presbiterio. Permane, invece, l’ambone “a cornu evangelii” risalente ai primi decenni del XII secolo. Affrescato sui due lati, oggi conserva, sul fronte a fianco della scalinata centrale, le figure del Toro e del Leone simboli degli Evangelisti Luca e Marco. Coevi sono anche i semicapitelli che ornano l’altro fronte. Più remota, probabilmente giunto da un ambone contemporaneo ai lavori di Ariberto,è l’aqpilaleggio riconducibile al Mille o ai primi decenni dell’XI secolo.

Sotto l’ambone scende la scala di accesso alla cripta. In corrispondenza dell’altro accesso forse esisteva un secondo ambone, da cui si leggeva l’epistola, poi ridotto alle forme attuali. Sull’alto parapetto vi è un affresco della fine del XIII secolo raffigurante da destra a sinistra: l’Acangelo San Michele, San Pietro, la Madonna col Bambino, S. Paolo, S. Vincenzo, S. Ambrogio e S. Adeodato. Nel catino absidale grandeggia il Cristo giudice affiancato dagli Arcangeli Michele e
Gabriele (ancora visibile fino al secolo scorso) abbigliati come guardie d’onore imperiali. Interessante la resa del tutto singolare che si distanzia da altri modelli di narrazione per immagini dell’Apocalisse. All’estrema sinistra avanza la schiera delle Sante, a destra quella dei Santi, tutti recanti palme e corone simboli abituali del martirio. Al centro, in basso, i profeti Ezechiele e Geremia si prosternano davanti alla mirabile apparizione. Sotto la mandorla l’iscrizione latina sottolinea la autorità-signoria di Gesù, raffigurato come un imperatore scortato dalle truppe (a riprova di quanto già detto circa la narrazione per icone del Giudizio di Dio nella storia). Lo schema di questa teo-fania (apparizione della divinità) è ricavato dal Libro di Ezechiele ed era più diffuso nell’arte bizantina, copta e siriaca che non in quella occidentale. Nell’emiciclo inferiore dell’abside è affrescata la Passione di S. Vincenzo di Saragozza che illustra il martirio subito dal titolare della Basilica ed allude alla passione di Gesù. A causa della sua fede il Santo fu condannato da Daciano, governatore di Saragozza nel IV secolo, dapprima alla flagellazione (scena da sinistra) e quindi alla tortura del piombo fuso. Dopo la morte il corpo di S. Vincenzo, buttato in mare con una pietra al collo, fu rinvenuto sulla spiaggia da alcuni cristiani che gli resero degna sepoltura. Nell’ultimo riquadro trova posto la nicchia del SS. Sacramento tra S. Adeodato con le braccia spalancate in preghiera e Ariberto d’Intimiano che offre al Cristo della visione il “modello” della Basilica da lui ripristinata. L’affresco col ritratto di Ariberto fu staccato intorno al 1850 e, restaurato, è stato risistemato in loco. Sotto le scene del martirio, il più antico cielo pittorico conosciuto dedicato a S. Vincenzo, si svolge un fregio di1 cornucopie, girali d’acanto e frutti beccati da uccelli, simbolo delle gioie che attendono il cristiano in Paradiso.

Entrano, in equilibrata fusione, elementi veterotestamentari. Altra allusione al paradiso è nella fascia, attorno alla teofania, a emicicli addossati popolata da numerosi uccelli. Sull’arcone trionfale il pennacchio sinistro illustra l’Ascensione di Elia sul carro di fuoco, simbolo dell’Ascensione di Cristo; forse il pennacchio destro riportava Giona vomitato sulla spiaggia dal pesce, che è il simbolo della Resurrezione. L’arco dell’abside è messo in risalto da una cornice di conchiglie, pesci, granchi e calici di cristallo che allude al “mare di cristallo” descritto da Ezechiele nella sua visione. Alla sommità un tondo con l’effigie di un pellicano si ricollega al Cristo, sacrificatosi sulla croce per salvare l’umanità. Il fregio soprastante, una serpentina alternata da riquadri con busti di profeti avanza rapidamente sopra gli affreschi dell’arco trionfale e quelli della navata: secondo la studiosa Tamborini questa sarebbe la riprova che «i dipinti furono eseguiti a poca distanza di tempo gli uni dagli altri, sebbene da artisti diversi». Autorevoli studiosi hanno proposto varie datazioni ed hanno riscontrato dissomiglianze esecutive tra le scene dell’abside e quelle delle pareti: noi ci riferiamo allo studio più recente in materia che vede nuovamente, avvalorando o confutando, le teorie precedenti. Per la prof. Paola Tamborini l’abside e l’arco trionfale sono opera di un pregevole maestro di formazione lombarda, ma in possesso di una vasta cultura, operante tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo. Gli affreschi della navata si presentano in uno stato lacunoso a già5RIèi annisubiti nel corso dei secoli. Sulla parete di sinistra si trovano, dall’alto in basso, la Storia di Adamo ed Eva, la Storia di Giuditta e la Storia di S. Margherita; sulla parete di destra, sempre dall’alto in basso, la Storia di Sansone e la Storia di S. Cristoforo. La distinzione sulle pareti rispecchierebbe la separazione delle donne dagli uomini ancora in uso nelle chiese cristiane fino a pochi decenni fa. Della Storia di Adamo ed Eva sono ancora parzialmente visibili la Cacciata dai Paradiso e la Vestizione dei progenitori con tuniche di pelliccia, secondo un’iconografia lombarda piuttosto rara. La Storia di Giuditta si svolge da sinistra verso destra e si apre con l’avanzare delle truppe di Oloferne, unica scena superstite. Anche la Storia di S. Margherita di Antiochia presenta numerose lacune; la Santa era invocata dalle partorienti e la sua vita ricorreva frequentemente nell’arte medievale. Gli affreschi sulla parete di fronte sono meglio conservati. Di grande suggestione è l’enorme effigie di 5. Cristoforo alta quanto i due registri che ne raccontano la vita. Le dimensioni sonà determinate dalla leggenda popolare secondo cui la semplice visione della mano del Santo preservava il fedele da morte violenta, consentendo al cristiano di pentirsi dei propri peccati. Probabilmente la chiesa conservava una reliquia del Santo a cui erano dedicati l’altare e il vasto cielo degli affreschi, il più antico e il più esteso che si conosca in Occidente; gli episodi della vita, da sinistra a destra, seguono la più antica leggenda orientale.

 
 

Prof. ALESSIO VARISCO

Artis magister

     
 
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