«Chi
gravita nell’ambiente dei giovani e ne spartisce le difficoltà
dell’istruzione e dell’acquisizione, sa che i contenuti ed
i principi intelligibili, che manifestano gli argomenti di un pensiero,
mutano incessantemente. Alessio lo sa è appassionato –intellettualmente-
della ricerca, del pensiero soggiacente, espresso in nuce e difficilmente
postulabile se non con una meticolosa ricerca di sincerità sul
supporto tela. La capacità di svellere l’alterazione, anzi
di precorrere le propulsioni, è una brama che induce ad una ininterrotta
tensione. La tensione si palesa con l’ansia di comprendere, scrutare,
ascoltare tutto e di più il senso di una scoperta o di una sfaccettatura
in misura minore visibile della realtà. La capacità, dunque,
ed l’ardimento in alcuni casi, di accettare vicende più grandi
e superiori all’umana ragione consegnataci, fanno parte di una educazione
alla osservazione che in alcuni mestieri (tra questi il docente) diventa
presupposto della proprio sviluppo ed aggiornamento agli accadimenti quotidiani,
alla costruzione del proprio vocabolario e del bagaglio di riferimenti
e delle proprie difese.
Suppongo sia questa una delle tante ragioni che mi sorreggono a rincorrere
il pensiero di chi si esprime con i timbri, con le tinte, con le figure,
con il gesto, con la parola, cercando di assimilarne l’arte poetica,
il soffio vitale, il metodo, ben sapendo che le inquietudini ed i inquietudini
personali e collettive, come le apologie di ogni generazione, rimangono
incarcerate per sempre fra colori, forme, suoni e voci a confermare conquiste
e sconfitte di una umanità che ha necessità di dirsi.
Devo molto all’incontro con Alessio Varisco. L’apprezzamento
delle sue opere ha collimato con una specie di recupero del mondo figurativo.
Per molti anni, difatti, mi è stato innato fare riferimento alla
lezione di Klee e di Mondriand, e di tenere dietro le stagioni e le seguenti
rotture.
Ora mi importa la strada che porta all’immensità ed alla
figura intrecciati e distinguibili in una narrazione a più direzioni.
È questa la vena più interessante di Alessio Varisco, alcuni
paesaggi che affermano una post-postmodernità in cui lo spazio
prospettico ci riconduce alla città, ad alcuni simboli del contesto
urbano: gli edifici, la strada, l’albero, le pozzanghere. Quasi
deriva dei continenti di un mondo affannato, in cui moto ed auto iperalistiche
ben presto cedono a splendidi ritratti di cavalli, composti nel reticolo
ben strutturato dell’analisi anatomorfiche. E queste figure –ieratiche-
recitano qualche cosa. Arditezza ed estrema necessità di guardare
oltre l’apparenza quella che gli attribuisce il pittore: paiono
quasi riflettere un pensiero generato da un’espressione. Cavalli
quasi umani, occhi guizzanti e muscoli tesi, prima, durante e dopo il
salto. Le relazioni tra le figure sono evocative quasi di un dramma nell’atto
di portarsi a termine (ma sarà effettivamente un dramma?), o forse
una fatalità che si sposta esitante, con tutta l’enigmaticità
di ciò che può essere e ancora non è. Paiono guardare
l’infinito come i suoi suoi quadri delle vedute alpine, rivisitazione
del romantico grand tour. Engadina, terra magica ove l’accumulo
diviene energia… Estate con un sole ed un’atmosfera vicino
ai suoi laghi quasi simile alla costiera amalfitana. Terra di contrasti:
cieli maghi, tempeste di neve e laghi ghiacciati d’inverno, e tepore
mediterraneo in estate.
Ma l’aspetto più sconcertante di Alessio Varisco è
quel suo non esser mai pago, sempre alla ricerca, quella spasmodica, viscerale
inquietudine, espressa in abbinamenti cromatici fortissimi, quel suo volere
indagare l’origine del mondo sensibile rappresentato metafisicamente,
nell’accezione greca più filo-sofica, nelle sue opere.
Alessio Varisco non cita Bosch a proposito del drammatico e del diabolico
nella sua arte, del tragico regnante nelle figure prese dal gorgo di una
fuga verso l’abisso: vortice, vertigine, vuoto, violenza. Eppure
in molte sue opere, specie in quelle dei Percorsi, è presente quella
dicotomica confliggenza fra bene e male, in cui l’affermarsi della
luce –a dispetto del caos e della tavola vuota- ed il suo farsi
colore, affermandosi, esplicandosi sulla tela, è la vittoria definitiva
sull’incertezza. E la sua ricerca dell’idea primigenia è
detta e fatta per sempre nella fulmineità del gesto cromatico.
A volte il suo sguardo è freddamente analitico –impietoso
verso se stesso- «vedo come una luce apparirmi non una sola volta,
ma per qualche istante. Piano piano scomparire, o meglio trasfigurarsi
nel coagulo delle mie idee, nel senso più greco del termine di
immagini-pensieri. Questa luce-idea-immagine è la sfida del mio
esprimermi. La inseguo nella sua direzione e trasparenza, fino ad intravederne
il suo momento precedente e seguente. In quell’attimo, furtivamente
la colloco sulla mia tela. Se non mi riesce l’abbandono poiché
non mi appartiene, non essendo neppure una realtà». Ecco
che la sua pittura diviene una confessione tenace, o meglio in lui è
presente l’aspetto di una maieutica primordiale, una vocazione profonda
a sviscerare idee in segni, parlati, alfabeti della memoria, in cui l’esperienza
più pura è la necessità ontologica di verità
postulabile ed asseribile, ma mai asservibile a menzogne.
Queste
immagini mi richiamano alla memoria Platone quando dichiara che «le
cose di questo mondo, che sono percepite dai nostri sensi, non hanno alcuna
sussistenza reale, diventano sempre, ma non sono mai... Esse hanno una
esistenza a stento relativa, non durano che nelle loro vicendevole relazioni
e solo in virtù di queste; il loro essere si può dunque
a buon diritto chiamare un non essere...». Occorre riflettere dunque
sulla realtà-irrealtà. Sul limite così labile inseguito
dall’artista. L’inquietudine di Alessio Varisco è quella
tipica agostiniana. Nel Civitas Dei Sant’Agostino, a proposito di
questi equilibri precari, dice che le figure si dilatano verso l’infinito
e pervadono il senso di sempiterno che pulisce il rumore anche di quelle
parti di città dove il rumore riuscirebbe ad essere la stessa crudeltà
battuta dal senso di incantato e del prodigioso in cui si crede.
Una pittura quella di Varisco che –mirando fondo- si pone di risolvere
il problema dell’esistenza. Questa nostra riflessione si vede concludere
necessariamente ricordando la smania di cui ho fatto cenno all’inizio,
che nel medesimo pensatore Schopenhauer, ci apre le porte –a tal
proposito- in una duplice direzione, quella dell’artista e dì
chi sì avvicina all’artista.
“Ogni opera d’arte cerca propriamente di mostrarci le
cose, così come sono nella realtà, in quella realtà
dove non possono essere apprezzate immediatamente da chiunque,perchè
immerse nella nebbia di circostanze accidentali, oggettive e soggettive,
e questa nebbia l’arte la fa sparire”.
[SCHOPENAUER- Sull’intima essenza dell’arte]
Direttore Scientifico Técne Art Studio
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