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«Tiere und landshaften»
di Alessio Varisco
 
 
     

“In ogni spirito che arrivi al punto di lasciarsi alla contemplazione rettamente oggettiva del mondo, si è dissepolta, anche se non visibile ed ignara, un’aspirazione ad acchiappare la reale entità delle cose, della vita e dell’esistenza. Soltanto quest’essenza, infatti, incuriosisce l’intelletto come tale, ossia il puro soggetto del conoscere”.
[SCHOPENAUER]

Personale di

ALESSIO VARISCO

«Tiere und landshaften»

Palazzo della Commenda,

Longomoso (Südtirol)

 

«Chi gravita nell’ambiente dei giovani e ne spartisce le difficoltà dell’istruzione e dell’acquisizione, sa che i contenuti ed i principi intelligibili, che manifestano gli argomenti di un pensiero, mutano incessantemente. Alessio lo sa è appassionato –intellettualmente- della ricerca, del pensiero soggiacente, espresso in nuce e difficilmente postulabile se non con una meticolosa ricerca di sincerità sul supporto tela. La capacità di svellere l’alterazione, anzi di precorrere le propulsioni, è una brama che induce ad una ininterrotta tensione. La tensione si palesa con l’ansia di comprendere, scrutare, ascoltare tutto e di più il senso di una scoperta o di una sfaccettatura in misura minore visibile della realtà. La capacità, dunque, ed l’ardimento in alcuni casi, di accettare vicende più grandi e superiori all’umana ragione consegnataci, fanno parte di una educazione alla osservazione che in alcuni mestieri (tra questi il docente) diventa presupposto della proprio sviluppo ed aggiornamento agli accadimenti quotidiani, alla costruzione del proprio vocabolario e del bagaglio di riferimenti e delle proprie difese.
Suppongo sia questa una delle tante ragioni che mi sorreggono a rincorrere il pensiero di chi si esprime con i timbri, con le tinte, con le figure, con il gesto, con la parola, cercando di assimilarne l’arte poetica, il soffio vitale, il metodo, ben sapendo che le inquietudini ed i inquietudini personali e collettive, come le apologie di ogni generazione, rimangono incarcerate per sempre fra colori, forme, suoni e voci a confermare conquiste e sconfitte di una umanità che ha necessità di dirsi.
Devo molto all’incontro con Alessio Varisco. L’apprezzamento delle sue opere ha collimato con una specie di recupero del mondo figurativo.
Per molti anni, difatti, mi è stato innato fare riferimento alla lezione di Klee e di Mondriand, e di tenere dietro le stagioni e le seguenti rotture.
Ora mi importa la strada che porta all’immensità ed alla figura intrecciati e distinguibili in una narrazione a più direzioni. È questa la vena più interessante di Alessio Varisco, alcuni paesaggi che affermano una post-postmodernità in cui lo spazio prospettico ci riconduce alla città, ad alcuni simboli del contesto urbano: gli edifici, la strada, l’albero, le pozzanghere. Quasi deriva dei continenti di un mondo affannato, in cui moto ed auto iperalistiche ben presto cedono a splendidi ritratti di cavalli, composti nel reticolo ben strutturato dell’analisi anatomorfiche. E queste figure –ieratiche- recitano qualche cosa. Arditezza ed estrema necessità di guardare oltre l’apparenza quella che gli attribuisce il pittore: paiono quasi riflettere un pensiero generato da un’espressione. Cavalli quasi umani, occhi guizzanti e muscoli tesi, prima, durante e dopo il salto. Le relazioni tra le figure sono evocative quasi di un dramma nell’atto di portarsi a termine (ma sarà effettivamente un dramma?), o forse una fatalità che si sposta esitante, con tutta l’enigmaticità di ciò che può essere e ancora non è. Paiono guardare l’infinito come i suoi suoi quadri delle vedute alpine, rivisitazione del romantico grand tour. Engadina, terra magica ove l’accumulo diviene energia… Estate con un sole ed un’atmosfera vicino ai suoi laghi quasi simile alla costiera amalfitana. Terra di contrasti: cieli maghi, tempeste di neve e laghi ghiacciati d’inverno, e tepore mediterraneo in estate.
Ma l’aspetto più sconcertante di Alessio Varisco è quel suo non esser mai pago, sempre alla ricerca, quella spasmodica, viscerale inquietudine, espressa in abbinamenti cromatici fortissimi, quel suo volere indagare l’origine del mondo sensibile rappresentato metafisicamente, nell’accezione greca più filo-sofica, nelle sue opere.
Alessio Varisco non cita Bosch a proposito del drammatico e del diabolico nella sua arte, del tragico regnante nelle figure prese dal gorgo di una fuga verso l’abisso: vortice, vertigine, vuoto, violenza. Eppure in molte sue opere, specie in quelle dei Percorsi, è presente quella dicotomica confliggenza fra bene e male, in cui l’affermarsi della luce –a dispetto del caos e della tavola vuota- ed il suo farsi colore, affermandosi, esplicandosi sulla tela, è la vittoria definitiva sull’incertezza. E la sua ricerca dell’idea primigenia è detta e fatta per sempre nella fulmineità del gesto cromatico.
A volte il suo sguardo è freddamente analitico –impietoso verso se stesso- «vedo come una luce apparirmi non una sola volta, ma per qualche istante. Piano piano scomparire, o meglio trasfigurarsi nel coagulo delle mie idee, nel senso più greco del termine di immagini-pensieri. Questa luce-idea-immagine è la sfida del mio esprimermi. La inseguo nella sua direzione e trasparenza, fino ad intravederne il suo momento precedente e seguente. In quell’attimo, furtivamente la colloco sulla mia tela. Se non mi riesce l’abbandono poiché non mi appartiene, non essendo neppure una realtà». Ecco che la sua pittura diviene una confessione tenace, o meglio in lui è presente l’aspetto di una maieutica primordiale, una vocazione profonda a sviscerare idee in segni, parlati, alfabeti della memoria, in cui l’esperienza più pura è la necessità ontologica di verità postulabile ed asseribile, ma mai asservibile a menzogne.

Queste immagini mi richiamano alla memoria Platone quando dichiara che «le cose di questo mondo, che sono percepite dai nostri sensi, non hanno alcuna sussistenza reale, diventano sempre, ma non sono mai... Esse hanno una esistenza a stento relativa, non durano che nelle loro vicendevole relazioni e solo in virtù di queste; il loro essere si può dunque a buon diritto chiamare un non essere...». Occorre riflettere dunque sulla realtà-irrealtà. Sul limite così labile inseguito dall’artista. L’inquietudine di Alessio Varisco è quella tipica agostiniana. Nel Civitas Dei Sant’Agostino, a proposito di questi equilibri precari, dice che le figure si dilatano verso l’infinito e pervadono il senso di sempiterno che pulisce il rumore anche di quelle parti di città dove il rumore riuscirebbe ad essere la stessa crudeltà battuta dal senso di incantato e del prodigioso in cui si crede.
Una pittura quella di Varisco che –mirando fondo- si pone di risolvere il problema dell’esistenza. Questa nostra riflessione si vede concludere necessariamente ricordando la smania di cui ho fatto cenno all’inizio, che nel medesimo pensatore Schopenhauer, ci apre le porte –a tal proposito- in una duplice direzione, quella dell’artista e dì chi sì avvicina all’artista.
“Ogni opera d’arte cerca propriamente di mostrarci le cose, così come sono nella realtà, in quella realtà dove non possono essere apprezzate immediatamente da chiunque,perchè immerse nella nebbia di circostanze accidentali, oggettive e soggettive, e questa nebbia l’arte la fa sparire”.
[SCHOPENAUER- Sull’intima essenza dell’arte]

Direttore Scientifico Técne Art Studio

   
 
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