PERCHE'
COLORI IN UN APPASSIONATO DI CHIAROSCURI?
«Da sempre ho avvertito una valenza simbolica
dei colori. La tavolozza cromatica, le sfumature, le venature di certi
legni, delle pietre, i licheni ad alta quota, le “sassaie”
sopra i ghiacciai perenni, le gorgonie –nel mondo sottomarino- e
la texture irregolare delle foreste di posedonia –a volte ricoperte
di splendide microformazioni calcaree-, le pareti di una grotta e molto
altro ancora avvincono il mio sguardo. Tutti questi enti “fenomenici”
hanno una carica fortissima di per sé ed esercitano un influsso
sulle fasi embrionali, sull’idea primigenia, che accompagna le molte
mie dipartite per l’oceano “colore”. Il colore non è
mai sterimelmente “piatto”, è sempre associato alla
materia, alla luce, alla texture. Si può dire che il colore è
lo strumento che mi consente di trasmettere le sensazioni della luce.
Esso è perciò fontale nella mia ricerca.
Intorno alla prima metà degli anni Novanta scoprii l’elemento
“segno”, quale purezza timbrica evocante la limpidezza della
“geometria degli elementi”, di euclidiana memoria. E fu passione
perché dall’interazione di tre segni nasceva un lessico,
un alfabeto, creato dalla combinazione –associazione- di elementi,
quali punto, linea e piani. Anche se il colore prese parte poco più
oltre, intorno al 1998 -come vera ri-velazione della potenza della melodia-,
il dato cromatico in quanto tale era comunque espresso attraverso la combinazione
dei miei lessici, vocaboli della memoria, segni dell’alfabeto della
mia anima. Risultava perciò presente –come evocazione- nel
sensorio esprimermi riguardo l’estensione e codificazione del mio
“parlato pittorico”. Il colore in quanto tale esisteva, anche
se “schiacciato” violentemente dal dissidio della sperimentazione,
che quasi ne negava l’esistenza formalmente in prima lettura. Paradossalmente
lo postulavo con più rigore e maggiore energia negli abbinamenti
di linee secche (“colori freddi, raziocinanti”) e linee sinuose
(simulacro di “colori caldi, passionevoli”). Ed il mio dis-currere
era di punti, linee e piani che originavano “parlati” evocanti
tinte nella loro persistente a-fonicità e a-cromaticità.
Il colore in quanto tale non l’ho mai cercato, o meglio come riferisce
Picasso ho assunto questo suo metodo «non cerco, trovo!»,
semmai mi è venuto incontro come valenza simbolica, quale carica
di elettroni, e dei colori ho espresso la luce che sprigionano. Ovviamente
nella complessità di una ricerca i colori più trovati sono
stati forse quelli meno convenzionali e necessariamente più rari.
Ho raccolto sulla mia strada quegli incantamenti e rarefazioni più
estreme: albe, eclissi di luna, aurore, eclissi di sole del 1999, il riflesso
della neve, lo sfavillio di un lago ghiacciato, la rifrazione dell’acqua,
le tempeste di neve. Insomma la necessaria assenza di cieli limpidi e
tersi, o meglio la spasmodica ricerca di situazioni limite.
Il colore si assurge ad instrumentum metaphicae e diviene paradigma dell’emblema
della ricerca mai paga di chi vuole trovare la luce e trasfigurarla, setacciarla,
filtrarla ed una volta assunta farla fluire ed esprimerla sulla tela».
ALESSIO
VARISCO, Magister artium
Sils, 4 settembre 2004 |