«Perché la verità che può uscire è come una scheggia saltata via da un grande macigno per un urto violento e proiettato lontano»
[Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979]
La recente produttività delle opere della Pittrice monzese Teodolinda Varisco, in arte L50, consente molte considerazioni a proposito dell’unità fra segnali psicologici, non ancora eletti a pensiero, e istanze sensorie, non realmente configurabili come suggestioni. Il richiamo è ad una situazione anteriore tanto le forze fondate sulla ragione quanto quelle istintuali e conduce a far coincidere il punto d’inizio dell’arte con il suo metodo creativo e addirittura con il suo ultimarsi. La totalità fra idea dell’azione pittorica, il suo crearsi e l’opera stessa fa penetrare il concetto di consonanza che annulla ogni riferimento spazio-temporale nel processo conoscitivo caratteristico all’arte. Essa pare levarsi come il movimento essenziale di quella volontà che Schopenhauer individua come dato “senza interposizioni” della vita intima e chiave interpretativa della creazione. Una sorta di realtà in sé, vista come svincolata da tutte gli steccati della cognizione, ad essa precedente ed esterna.
Lontano dalle coordinate spazio-tempo e slegata dal principio di causa, la “volontà” va ben più avanti le corrispondenze esistenti nella pluralità delle cose, per farsi combaciare alla loro entità. Il pensiero di Schopenhauer ha valore come punto di riferimento filosofico di singolare attualità nella rappresentazione di una volontà intesa come «puro incondizionato» e come l’essere assolutamente certo di fronte al quale perdono di senso i prospetti conoscitivi ed acquista interesse la comprensione della volontà come ottenebrato input, simile alla vigoria imperscrutabile che governa le energie della natura ed i suoi fenomeni inorganici.
E’ da una siffatta potenza che prende inizio dal sistema delle cause formali intrinseche di L50. A questa quota si colloca il darsi figura della facoltà di avvertire di Teodolinda, quale «organo della volontà» espresso in gangli cromatici. Di conseguenza si schiude la via della consapevolezza nei suoi dissimili gesti, conducili di nuovo, in ogni modo, alle spinte della determinazione.
Nella stessa maniera prende inizio la successione genetica dell’arte di Teodolinda Varisco, il cui ruolo si addossa, in tal genere senso, valore paradigmatico di un’imminente impressione dell’arte sia in considerazione al mondo dei proponimenti concettuali che a quello intricato della coincidenza fra lo spazio dell’opera e quello proprio, fino alla nozione di auto-rappresentazione. La corrente opera della Varisco si pone in distanza tanto dai processi più freddi della pittura corrente, quanto da aree di più alta pressione, attraversate da eventi di neoinformale o di furore espressionistica -vivida e visibile la lezione della Die Brücke-. Posare a principio dell’operare artistico una manifestazione di volontà incondizionata evidenzia infatti disporsi precedentemente alla conoscenza, là dove il mondo è inteso nella sua totalità e non diviso in quella pluralità di cause formali che fan sorgere la conoscenza pratica.
L’arte comprende così un’esistenza sub specie aeterni, immobile e non comprovabile, poiché avulsa al principio di causa e per questo sfuggente. L’unicità e la pienezza dell’immagine schiva la serie di anelli delle conseguenze, rispedisce al tutto di cui è presentimento e si installa nell’essenza come spinta della volontà e espugnazione di forme fondamentali dell’essere. L’azione pittorica in tal modo sussiste al di fuori dei sentimenti e delle aspirazioni, e ci incoraggia verso l’estasi e la quiete, definendosi come metafisica. «Così mentre guardi l’accavallarsi delle linee, lo scontrarsi dei ritocchi, mentre tu vedi raccogliersi l’emozione come un’impennata del colore, come un’istantanea del sentimento, ti domandi di che mano parlino, di che occhio siano rivelazione, di che ricerca siano quei paesaggi dell’anima e quei brandelli della memoria: personale e familiare, sacrale e disincantata ad un tempo. Il rincorrersi di motivi, di rimandi all’inconscio di una fanciullezza abitata da tanti volti, di una storia soccorsa da molte fatiche, di un presente attraversato dal dolore e dalla speranza ti fa pensare che la ricerca della verità sia lungo tragitto, sia tirocinio severo, sia inseguimento a caro prezzo della preda» [Prof. Sac. Franco Giulio Brambilla, Docente Antropologia e Preside Sezione Parallela Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale].
L’investigazione di un distretto non coincidente con quello della sociale conoscenza e satollo di valori sfuggenti e fatati rimanda inevitabilmente a De Chirico, almeno sul piano della concezione dell’arte. La uguale attitudine, chiaramente riscontrabile nelle opere più recenti di Teodolinda Varisco (dal ‘99), a riconquistare un insieme ordinato duttile dello spazio pittorico regolato in principi intelligibili di splendente valenza espressionistica, sino alla loro schermatura e al loro arresto siderale in una cosmica e indorata profondità, fa ricordare esami scrupolosi di fatto riguardanti l’area di influsso della Metafisica.
La iniziale di queste riguarda l’a-temporalità dell’opera d’arte, già espressa da Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali: «anteriore e il contemporaneo sono la stessa medesima idea, cioè propriamente identici in qualunque molteplicità, e realizzano (...) un complesso di elementi immobile, fisso, e di significato illimitatamente identico». Distaccata dalla cognizione empirica, l’arte si offre come principio intelligibile in sé, elemento della volontà della vita, di cui riferisce l’immobile fondamento.
Durante gli anni parigini De Chirico scriveva: «Durante un viaggio a Roma in ottobre, dopo aver letto le opere di Friedrich Nietzsche, mi resi conto che esistono rivelazioni strane, sconosciute, che si possono tradurre in immagini. Meditai a lungo. Cominciai allora ad avere le prime rivelazioni. Disegnai di meno, qualche volta mi dimenticai perfino di come si disegna, ma ogni volta che lo feci fu sotto la spinta della necessità. Allora capii alcune strane sensazioni che in precedenza non ero stato in grado di spiegarmi: il linguaggio che talvolta parlano le cose di questo mondo, le stagioni dell’anno e le ore del mondo; e anche le epoche della storia, la preistoria e le rivoluzioni del pensiero lungo il corso dei secoli, l’epoca moderna; tutto mi appariva strano e distante. Non si presentarono più oggetti alla mia immaginazione, le mie composizioni non avevano significato, soprattutto nessun significato comune. Erano calma (...). C’è bisogno soprattutto di una grande sensibilità, tutto ciò che esiste al mondo va dipinto come un enigma, non soltanto i grandi interrogativi che poniamo a noi stessi, il perché della creazione del mondo, il perché siamo nati, viviamo e moriamo, poiché, come ho già detto, non esiste forse alcuna ragione per tutto questo. Bisogna invece penetrare l’enigma delle cose...».
Di qui la sua scienza dell'assoluto geometrica, energica ad additare una «realtà superiore» che l’intelletto non può avere dentro né lo sguardo avvinghiare, ma che è data all’arte come sua essenza. Preziosissimo Sangue, opera nuovissima della Varisco, più ancora delle precedenti pare conquistare questa dechirichiana atemporalità ed indecifrabilità. La forma è a questo punto chiusa, fermamente e robustamente avvinghiata alla sua compagine scultorea. Né è più osservabile la diversità, per altro seducente, fra la necessità di spingersi a tali architettoniche valenze ed il tragitto erratico del segno, annunciatore della partecipazione divina, suo malgrado, di un’entità non fisica e di una energia fisica ultraterrena, generata dal Sangue dell’Agnello. Opere come Genesi (non dissimile da un suo carboncino di fine anni sessanta) che già enuncia una grande quantità di deferenza a quest’urgenza di raggiungere, fare convergere, e concentrare in immagini evanescenti le energie e le pressioni dell’organismo artistico, hanno l'aria ancora molto narrative rispetto a questa iniziale di Duc in altum tavola del 2002 improntata al misticismo rigoroso e poetico in cui si mettono in evidenza sagome austere, di un’autorità quasi sacrale, i discepoli, sulla barca con il Maestro a gettar reti, ove le facce non finite –vi è solo il contorno- sembrano esser create per poterci rispecchiare. Ma se queste analisi ci riportavano ai lavori precedenti Prendete e mangiatene, Verso Gerusalemme oli su tela , è proprio qui, e nelle opere a queste successive, che l’artista giunge a distensioni e silenziosità sacrali, e per questa ragione a figure del tutto dispensate tanto da ostentazioni di rispetto formalistiche, quanto da impellenze etiche o teoriche e fin anche da intenti conoscitivi. L’inattuabilità di raffigurare l’idea e comunque di accollarsi altri punti di allusione traduce in pratica lontano dai nessi causali, come si è già visto, e dalle classi spazio-tempo ed impegna l’artista a ritrovare la propria volontà primitiva, dove il passato non è neanche memoria, ed il futuro è inconsistente. Né essa può applicarsi al presente, sussistendo questo ancora una qualità del tempo. La sua area di saldezza è metafisica, e solo in tale modo si impadronisce di monumentalità e sacralità. «Et quid amabo nisi quod rerum metaphisica est?» [epigrafe di un quadro di De Chirico]. E l’Arte è il solo obbiettivo di L50.
Di tal genere la valenza metafisica che oggi si riscontra nei lavoro attuale di Teodolinda Varisco, concede in ogni caso spunti per un’esplorazione a ritroso, quel tanto che basta a istituire una successione di piani entro cui, sicuro senza consapevolezza (ma esiste mai una cognizione vera e abbondante nell’arte e dell’arte?), la pittrice si disloca almeno dal 1997, quando nella serie delle Piaghe –annunciate dalla Partenza che fa seguito ai Ponti (di fine anni ’80)- si sviluppano compaiono più saldi intenti costruttivi. Si tratta di quel che Bonito Oliva indica come l’«assecondamento deciso ed energico di una pulsione positivamente femminile tesa verso la costruzione di un suggerimento». Ne fanno discendere quelli che Bonito Oliva indica come «paesaggi astratti e concreti (...) capaci di produrre una contemplazione che permette di dilagare col corpo e con la mente».
L’arte infatti è opera non di riconversione ma, come in tutto il lavoro creativo di Teodolinda Varisco, di rimozione biologica verso l’estrema sottigliezza mediante forme rette da un nuovo principio gravitazionale. Ma opere come Cor jesus janua coeli, o Dove andremo solo Tu hai parole di vita eterna, facendo tornare molto aree di impalpabilità, offrono già l’intaglio delle forme secondo valenze espressionistiche che, con l’impiego del bianco - lasciando fuori alcuni dipinti in cui il bianco appena introdotto determina zone di sospensione lattea di frammenti del visionario- acquisiscono la robustezza di un’immagine totalizzante. In tale senso ci si distacca dalla recente lettura di Bertazzini, lecita peraltro a definire tempi personali e non di lunga durata dell’arte della Varisco: «(...) nelle vie percorse di energia, nei gorghi di luce che abitano (si pensi all’Autoritratto blu), e scuotono, le tele recenti di Teodolinda Varisco, il probabile si sposa al contraddittorio –sul piano esteriore-, il chimerico al torvo, e la visionarietà si fa ardere e si cambia di posto fra leggenda, visione onirica e tormento, fra l’attuale e un altro mondo, sul globo terrestre tormentato che calpestiamo o in alto, fra immensità allargate e fiduciose»
Il riferimento è qui, chiaramente, al Maria Assunta in cielo(tavola del 2002) pubblicata sul Catalogo della mostra presentata da Bertazzini, Mons. Cosmo Francesco Ruppi e dall’Art Director di Técne Art Studio nel volume “Duc in altum” (Monza, Edizioni Técne Art Studio 2002) ma anche ad altre opere, come Maria donna dell’attesa del 2000, dove in effetti le considerazioni di Bertazzini trovano puntuali riscontri tanto con lo sviluppo delle rappresentazioni estetiche della Varisco, quanto con l’uso del colore. Ma si considera che tale quadro globale da un lato evidenzi già la propensione ad lasciare in disparte zone compatte di valenza plastica -destinate come si è visto a prendere sempre maggiore consistenza e quindi ad assumere un ruolo predominante nella pittura della Varisco- dall’altro sia del tutto non partecipe ai temi dell’informale, appartenente ad un processo freddo, dominata invece dalla concezione di un’arte-cosa, nuova ed altra rispetto all’esistente, tipica del suo espressionismo a volte incline all’astrazione. In questo senso appare particolarmente pertinente quanto la Prof.ssa Cattaneo -Docente di Storia dell’arte sacra alla Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale- aveva detto nel 1999... a proposito dei dipinti della Varisco, ognuno dei quali visto come «uno strumento che abolisce ogni progetto di rappresentazione psicologica, sia essa proiezione emotiva o lo schermo della tela come incantamento che ipnotizza lo spettatore».
La considerazione della Cattaneo si riferiva a dipinti circa all’inizio degli anni Novanta, ma vale anche a stabilire uno dei temi della poetica di un’artista che lavora sulla distanza fra sé e l’opera.
«Teodolinda attua un interessante vagabondaggio tra le esperienze artistiche del XX secolo, come a cercare quale strumento l’arte possa offrirle per esprimere l’Ineffabile.
Proviamo a ripercorrere qualche tappa del suo pellegrinaggio che sembra allontanarsi dal già per nuovi orizzonti, poi ritornare alla posizione già occupata, ma non nello stesso punto, bensì un gradino più in profondità, come in un percorso spiraliforme (Spirale cosmica, spirale borrominiana come scala di Giacobbe, spirale dantesca su per il Purgatorio fino a Beatrice, la scala d’oro di Burne-Jones da cui scendono gli angeli... la spirale è una delle metafore più adeguate al cammino dell’umano verso il divino ed al rivelarsi dell’Infinito all’uomo). [Gabri Cattaneo]
In questo atteggiamento si colloca anche il senso della storia, e più precisamente ciò che Cristina Marchetti definisce l’«incontro tra memoria soggettiva e memoria storica», propensione e metodo di una ricerca artistica che mira ad eliminare ogni forma di autocoinvolgimento esteriore.
«Folgoranti i colori spalmati a volte brutalmente sulla tela, o schiacciati direttamente dal tubetto su supporti improvvisati.
Folgorante la luce, che traspare da queste opere. Luce suscitata sì da orizzonti sconfinati che suggeriscono l’origine e la meta della creatura umana, ma anche dello spirito che è illuminato da dentro e che irradia tutt’intorno. Oppure scintille, bagliori, puri cenni che il Padre ci invia per ricordarci il nostro destino.
Folgorante la tecnica, la ricerca di materiali misti, della terra, offertici dalla natura, la sacra sabbia di Assisi, fino al cemento da impastare come base grezza a supporti convenzionalissimi, oppure cartoni della pizza del Take-a-way sotto casa bucati al centro e appesi con una corda oppure oli e tempere “drippingati” sulla tela, a volte un’unica macchia di colore blu resa direttamente con le mani a raffigurare il tutto.
Folgorante infine, mi è parsa l’artista Teodolinda Varisco, signora dall’affanno dell’arte e del vivere, esistenzialistica presenza nel panorama artistico locale, sicuramente una delle più interessanti. Un uso spasmodico dei colori, accesi, brillanti, accostati in tono oppure miscelati direttamente sulla tela per contrasto, o attratti da un magnetismo innato, vessillo umano personalissimo, dimostrazione empirica di un vissuto universalizzante, che trova nel proprio background culturale nomi come Mondrian, Munch, la Die Brücke tedesca, Vlamick». [Cristina Marchetti, storica dell’arte].
In quest’ultimo punto di vista appare pertinente il rapido richiamo di Bertazzini all’avanguardia tedesca (Teodolinda è figlia d’arte, il padre conobbe Picasso a Parigi e fu allievo di Arturo Martini e Marino Marini all’I.S.I.A. monzese) sia per quanto concerne la prima attività della Varisco -si pensi ad alcuni carboncini del 1969- sia anche per alcuni momenti successivi, come quelli ultimi prima citati, in cui, a ogni buon conto, l’obiettivo consiste nel fissare luoghi di concentrazione delle forze dinamiche secondo intenti costruttivi. Ciò risulta chiaro nello sviluppo ditale atteggiamento verso il conseguimento di forme stabili.
Se è lecito rivolgere lo sguardo all’arte dall’arte, e quindi interrogare e sforzarci di capire il percorso artistico della Varisco andando in senso inverso e cioè muovendo dalla consapevolezza della Vivacità del cuore (tavola con inserimento conchiglie, echinodermi e stelle marine del 1997)
-senza nulla togliere all’originalità e alla storicità di ogni fase dell’intera produzione di Teodolinda Varisco, è vero che essa si mostra -in questa inconsueta fuga- quanto mai armonica sia per quanto riguarda lo sviluppo illustrativo a cui l’artista mette alla prova la propria ricerca, sia per tutto quello che riguarda l’estensione coerente delle immagini. Già, infatti, nei fiumi ad olio che la Varisco dipingeva en plein air appena uscita dalla accademia della vita, è possibile individuare all’interno di un figurativo idealista, l’intrecciarsi delle linee di forza a dichiarazione, in epoca addirittura iniziale della sua attività, di un’implicita elezione all’astrazione, mai totale, stabilita dal destino tuttavia a manifestarsi senza fraintendimenti sin dalle opere del ’69 (basti citare “Guerra”, “Don Lorenzo”, “Papa Giovanni” e “Che Guevara”). Così l’olio Ponte lascia intendere l’urgenza di specificare un campo gravitazionale di energie che agiscono in senso tanto centripeto quanto centrifugo.
Paradigmatiche il ciclo delle Croci che giungono dal cuore, processo di apprendimento della teoria di un maestro –don Luigi Serenthà-, che generano una sorta di danza. L’artista non ritrae poveri cristi appesi, bensì esalta il dolore di ciascuno alla luce della Croce. E’ un ballo di ogni individuo con la propria realtà, è come sottolinea un teologo, filosofo ebreo A.J. Heschel «Un’utopia: se tutti gli uomini fossero profeti…» E la Varisco profetizza tramite il suo medium, la tela, «Un pensiero consolante: Egli è con noi anche nella miseria; un fatto così sublime: il pathos umano e divino possono accordarsi» [A.J. Heschel]. L50 dimostra che il Dio biblico soffre con noi, prova una cum-pietas, la sua è una theologia crucis per immagini; inevitabilmente la nostra pittrice si fa cassa di risonanza del Novecento ed interpreta nella sua pittura, in modo teodolindesco, gran parte della teologia contemporanea «pensiamo ai martiri. A proposito di queste mute vittime, possiamo dire in senso realmente figurato che Dio stesse pende dalla forca». [Moltmann] Certo è singolare la descrizione che traccia un ribelle che riassunto dalla Varisco fluisce in suoi molti Christi Pathiens nei quali si scorge un’unità di tratti tra i primi del 1968 e l’ultimo del 2004 «Cristo ti amo/ non perché sei sceso da una stella/ ma perché hai scoperto/ che l’uomo ha sangue/ lacrime/ dolori/ smarrimenti/ per aprire le chiuse porte della luce./ Se ci hai insegnato che l’uomo è Dio,/ un povero crocifisso come te,/ anche quello che sta alla tua sinistra sul Golgota/ il cattivo ladrone/ anche lui è un dio» [Ernesto Che Guevara]
L’elemento croce «fa memoria che del dolore non si può fare a meno. E così è per Teodolinda, pittrice sì, ma prima di tutto donna e madre; donna come ce ne sono poche (verrebbe da dire), madre amorevole, ma con quella capacità, che è prerogativa unica degli artisti, di superare il dolore sublimando la lacerazione che ne consegue nell’assoluto dell’arte […]Se il dolore dunque fa parte della vita e la vita è arte, allora la fenomenologia di questo dolore (che nel vissuto artistico trova un superamento concreto) è espressa nella pittura.
Inevitabilmente, se non si vuole essere puri imbrattatele, questo dolore non resta circoscritto nei confini di un’unica vita ma si estende ad interrogare le vite di altri ponendole di certo in discussione. Ciò che rende preziosa l’arte della Varisco è proprio questo passaggio continuo, dal particolare all’universale, dall’io al mondo.
Ed è così che la più pura espressione del “dolore del vivere”, la fenomenologia della sua essenza, trova nella croce, in Teodolinda, il simbolo per eccellenza. Simbolo religioso e pagano, mistico e popolare insieme, contraddittorio e mistificato nei secoli della storia […]Una danza verso il Paradiso luogo di beatitudine eterna.
E’ questo che più stupisce in Teodolinda, la consapevolezza che il dolore, il calvario umano sia purgato infine dalla certezza della salvezza, per i cristiani questo ha un nome semplicissimo: Fede. [Cristina Marchetti, storica dell’arte]
Qualcosa di simile, ma in senso più compiuto e già saldamente ancorato alla qualità plastica della forma, si ritrova in Lavorare stanca (tela del 1988), ma affine nella formulazione linguistica ai lavori che maturano verso il 1985, estremamente materici quali il Ponte, Autoritratto. E al di là della compagine di queste opere, è in esse rilevabile ciò che più avanti diventerà la consapevole esigenza di sovrastareil limite della tela e di fuoriuscirne, , travalicandola, determinando un piano pittorico universale in cui si smarriscono le abituali coordinate spaziali dell’alto e del basso, della sinistra e della destra, della superficie e della profondità: le forme, finalmente libere da barriere e perimetri, si allargano con robustezza sulla tela, vengono alla luce e si aumentano tenendo dietro una loro dialettica interiore e si trattengono in un punto non prefissato, là dove termina l’energia del gesto e le quantità del colore. E’ l’esperienza della gestualità spontanea che della Varisco ne fa –seguendo la profezia di Vincent Van Gogh- la pittrice «colorista, sarà il futuro» (da una lettera al fratello Theo).
«“La pittura é colore ed il colore é istinto, spontaneità” soleva ripetermi un “grande vecchio”, l’indimenticabile Gino Meloni. La dichiarazione mi é tornata in mente visionando le opere di Linda Varisco. Sono oli, tempere e qualche carboncino; colori buttati e sparsi a spatola, ma anche distesi a mano e ad unghia, così che l’elaborato mi appare quasi come un antico graffito.
E nei colori la pittrice si concede scelte striate di irrazionalità emotiva con languori esaltanti e sapori esplosivi, da “fauves”. Sono i colori, mi sento di dire, che esaltati dalla ricerca e dagli esiti luministici, albergano dentro l’anima di una sognatrice.
E’ una pittura di emozione più che di visione, che, e in fase progettuale e nel momento esecutivo, é sì frutto di fantasia, ma anche di sofferta meditazione. La pittrice infatti pensa e vuol far pensare.
L’aspetto concettuale si coniuga con un assunto essenzialmente psicologico, come tentativo cioè di tradurre in segni, in immagini, in colori i moti razionali della coscienza ed i guizzi irraggiati da componenti emotive e da affioramenti inconsci.
Il discorso cade di necessità sulle ascendenze, sui punti di incontro, sulle derivazioni più o meno controllate e personalizzate.
Mi limito a citare Rouault: la pittrice stessa confessa una mirata attenzione e, nella pratica, definisce i contorni delle figure, marcando il segno, indulgendo, sempre, ad accordi cromatici violenti.
Del resto ho già ricordato i “fauves” per l’esaltazione del colore, con particolare riferimento a Vlaminck e, forse, a Dufy.
Ma, elemento fondante del suo far pittura, la Varisco purifica, oserei dire, le sue tele attraverso la fede religiosa sovente ispirata al sacro.
E’ comunque la religiosità della visione del mondo e della vita a fare sacro ogni tema, quale ne sia la natura». [Bertazzini] L’analisi del professor Bertazzini si conclude mirabilmente nel riconoscimento -destinato a futura convalida- di uno sviluppo organico delle forme con acquisizione di una straordinaria potenza plastica.
Si tratta ormai della chiarificazione di un programma astratto che all’Artista diviene consapevole al punto di captare la necessità di un distacco radicale da quanto ancora poteva rinviare all’originaria ispirazione naturalistica. L’abbandono dell’olio per l’adozione di colori plastici ha il significato dell’azzeramento di ogni previa esperienza e del rifiuto della pur vaga matrice naturalistica, per un’astrazione mentale ed espressionista. Il varco doveva essere essenziale alla Varisco per conquistare una nuova e diversa posizione nei confronti dell’arte, ma le opere che ne derivano appaiono la radiografia delle precedenti.
In Guerra del 1967 il processo di riduzione linguistica volge le spalle non solo all’immagine-icona (già partecipe alla pittura di Teodolinda Varisco), ma anche alle apparenze fenomeniche e soprattutto al rumore che può sprigionarsi dal colore e dalla matericità dell’olio. Ne deriva un’astrazione come scelta linguistica, quasi un anticipo di più recenti movimenti artistici. Ma nella rinuncia alla materia e nell’affiorare di valori superficiali e totalmente astratti, il coagulo degli scuri in zone compatte che si stagliano nette in contrasto ai chiari, ripropone lo sviluppo lineare di sagome anche nei più astratti quali Bagliori e segnano una svolta non casuale e consente di stabilire in filigrana somiglianze con valenze convenzionali proprie dell’attività della Varisco sin dal ‘98, ossia dagli inizi della serie dei suoi “pitto-collage”.
La dimensione concettuale ha pregio allora a segnare con precisione radicalità di una scelta e soprattutto a mettere in evidenza l’assioma arte-metodo che, portato alle estreme conseguenze in Pollini e scintille del 1999, significherà per la Varisco l’irrealizzabilità della pittura e l’esigenza di riesaminare il luogo dell’immagine (nell’accezione più greca di “eikon”) e quindi alla tela, facendone uno screening di nuovi significati. In questo periodo la Varisco inizia ad occuparsi di meta-scultura, non applicandosi interamente alla pittura, bensì ai materiali di essa, fino alla scoperta delle diverse reazioni cromatiche e in particolare di quelle misteriose e magiche dei colori vegetali e delle loro qualità fenomeniche. «Non è forse vero che tutte le erbe, piante, alberi altro, provenienti dalle viscere della terra, sono altrettanti libri e segni magici?» (Croffius, 1624).
Interessante notare la valenza alchemica ed il significato semantico di molte “terre” rivissute dalla Varisco tramite le sue opere, che non più mere creazioni divengono story-board di una passione per l’arte. Ed ecco polveri del Subasio in Dal cuore squarciato di Cristo e in Bimbo nel tempio appartenenti ai suoi soggiorni dentro e fuori le mura di Assisi nel 1999 e 2000, conchiglie in Vivacità del cuore, arbusti di Castelluccio di Norcia in Bagliori. Un susseguirsi di «inserimenti di polveri di minerali, di sali, di succhi delle erbe più consuete o esotiche, una ricerca di L50 quasi alchemica (o meglio di richiamo alle tecniche antiche di Giotto e Cimabue nella lavorazione dei pigmenti), le tinture che da essi derivano, sono momento principale che parte dal disciogliere per approdare al colore, intanto che il coagulare è il segno di un agire che si ripropone all’infinito. Un infinito in cui si testa il prodigioso istante della trasfigurazione della materia, ora in essenza di luce» [Prof. Alessio Varisco]. E la pittura ricomincia da qui. Da questa ricerca, da questa magia di un’erba che si trasforma in colore, secondo processi eterni cui la scienza non ha tolto mistero. Le metamorfosi della natura penetrata sin nelle sue viscere (le radici, la tela sotterrata), consentono a Teodolinda Varisco di ritrovare il fascino del gioco –ora sulla spiaggia di Paraggi, ora nella Piana dei cavalli bradi di Castelluccio nel Parco dei Sibillini, ora sul Subasio (il monte dalla pietra rosastra)- per meglio dire la vicissitudine di un codice nuovo, suscettibile di infinite combinazioni.
«Quello che mi piace della Sua pittura è la capacità di ricostruire in una tonalità infinita i colori dell’anima e le sfumature delle angosce, delle ansie, del tempo. Lei sa sapientemente dosare il sorriso, il dolore, la serenità, le preoccupazioni, le lacerazioni dello spirito, così come la natura miscela in giuste proporzioni il fascino della primavera, con la vita che irrompe con tutta la sua irruenza quasi fosse un fiume in piena, e la poesia d’estate, quando gli oggetti sembrano diventare più evanescenti e addormentarsi pigramente, immobili e indistinti, sotto la calura estiva.
L’acqua della fontana si riversa nel bacino sottostante che la raccoglie in uno spazio delimitato; il chiacchierio del suo perenne zampillare però penetra nel cuore del passante che lo porta con sé e lo rivive a distanza. Questa è la sensazione che suscita in me la sua pittura. Non è qualcosa che si ammira al momento e che si sbiadisce nella memoria; è invece un qualcosa che col passare del tempo si staglia più forte e più vivido nell’anima. Vi sono diversi modi per accostarsi alla realtà; Lei preferisce cogliere l’alone di mistero che aleggia attorno alle persone ed alle cose» Mons Giovanni Balconi, delegato dell’Arcivescovo di Milano per le Istituzioni Culturali.
Queste sue opere –simbolo della trasposizione dell’essenza delle cose nella pittura- sono sostanzialmente questo fare e questo farsi, al cui interno scatta l’energia poetica del silenzio e del manifestarsi improvviso e necessario delle forme. La serie degli Te Deum (il primo personaggio del Te Deum è circa del ‘88) nasce proprio da queste forme che inizialmente allagano lo spazio, come nello Santa Teresa d’Avila, 1988. Qui l’attenzione pare porsi sulla porzione ridotta di un volto che è storia, un’immagine sgranata e allentata nella sua struttura, che, persa l’originale funzione di freno linguistico, sprigiona la prima forza vitale incanalata, come ha visto Mons. Balconi.
«La luminosità che avvolge i suoi quadri rimanda a una sorgente. La fonte della luce che cos’è? Dove abita? Perché tutto ne porta in sé una briciola e una scintilla? Per questo a mio avviso Lei dovrebbe lavorare sopratutto sulla essenza delle cose, che abbaglia la luce e che si riflette in essa.
Come ci invita a fare la leggenda siberiana, noi dovremmo ripetere l’esperienza dell’uomo che si fermò ad osservare con stupore una zolla di terra. La guardò una prima volta; le apparve una misera cosa, un semplice pugnetto di terriccio.
La guardò una seconda volta; la zolla aveva perso i contorni; si era trasformata in un campo esteso senza siepi e senza limiti.
La vide una terza volta. La minuscola zolla era un continente sconfinato.
Sono convinto che un uomo possa essere figurato, con-figurato, raf-figurato e che l’esistenza di Dio sia percepibile nell’intreccio intricato di linee, che costituiscono la vita, a volte continue e a volte tratteggiate, spesso evocantesi l’un l’altra, nella orditura di voci e di suoni che confluiscono in una sinfonia ininterrotta di colori naturali, ma per lo più ricavati da una mescolanza dei colori fondamentali, nella trama di assonanze e di consonanze, di armoniche e di accordi spesso inattesi, di corrispondenze imprevedibili. L’artista ha la mente immersa nel Sublime, respirare con i polmoni dell’eterno e si sintonizza con il pulsare e il battito del cuore di Dio.
L’astronomo ricostruisce le mappe del firmamento; l’astronauta scopre delle strade, dei circuiti, delle orbite inesplorate e vi si incammina. Nella Sua avventura pittorica Lei tira fuori dallo scrigno segreto la ridda di volti che vi conserva, magari a lungo e li riveste con le forme della vita. Spes in reditu vitae. Così, scompaginando le simmetrie e le asimmetrie del déjà vu, i Suoi quadri effondono un palpito di speranza della quale la nostra cultura» [Balconi]
Entro gli argini quieti dei suoi rotoli di tela e nelle ‘cornici’ formate dalle piegature della superficie. Un incendio che lampeggiava negli spazi vuoti (“bianchi-vuoti” delle superfici pittoriche) negli spiragli trasmessi per testamento, dischiusi dalle stesure di elementi cromatici, e che ora ha spezzato il sangue rappreso della pittura, facendosi esso stesso pittura. E la pittura di Varisco condensa le forme, addensando gli scuri e i chiari in zone sempre più marcatamente distinte, in un intaglio che, verso il finire degli anni Ottanta, va sempre più assumendo valore plastico. Nemmeno una progettualità controlla tale fenomenico crearsi. L’entità fisica ha tempi e ritmi caratteristici che risvegliano sviluppi propri, la cui risoluzione è in un sistema formale recente, fresco, di indubbia enigmaticità. Il quesito di una sostanza che è e nello stesso tempo diventa ed introduce senza mezzi termini nella poetica della Varisco e rimanda al concetto di volontà come atto necessario e primario di cui già si è detto. Ma la questione è degna di attenzione anche a stabilire, una volta di più, il distacco fra l’artista, il suo gesto e l’immagine che, motu proprio, ne zampilla. La materia è e la materia diventa, come se divenisse vestale dell’arte, trasfigurandosi nello specchio per divenire “la mistica della luce”. «E’ come se lei osservasse il mondo attraverso lo specchio dello specchio, uno specchio che scompiglia le convinzioni in cui tutti credono senza mai verificarne la validità e che dissolve la patina opaca della superficialità per portare a percepire i battiti del cuore delle persone e delle cose.
Davanti ai suoi quadri mi è venuto spontaneo non affermare: Che bello!, ma dire: E’ vero! Lei ha il gusto della verità; è alla ricerca della verità, una verità a volte tormentata e a volte ridotta a poche essenziali pennellate che colgono l’animo nella sua nudità.
La sua è un’arte ascetica; le cose e le persone si stagliano sul silenzio del deserto. Per capirla sono stato costretto a immettermi nella povertà dello spirito, perché le sue figure mi interpellavano, esigevano una risposta, mi perseguitavano fino a quando non esprimevo la verità che nascondevo nelle pieghe più riposte del mio spirito.
Ma è anche un’arte mistica. C’è uno spiovere del soprannaturale e del divino nell’uomo e nella creazione; e nello stesso tempo avvertivo il sentimento, l’angoscia, l’ansia dell’individuo che si eleva al di sopra di tutto; e a metà strada, tra il cielo e la terra assistevo all’incontro dell’uomo con Dio e in quel momento sentivo che l’immagine si era soffusa di speranza e che in me era rinata la pace. Ritrovavo l’armonia e l’unitarietà del tutto e mi scoprivo a pensare: Ecco chi sono! Ecco come vorrei essere!
I suoi quadri sono formati da immagini eloquenti, nel senso latino della parola. Esse parlano al cuore trasformano i sentimenti in coaguli di colori. Mentre il rosso fuoco porta a pensare al tramonto e a qualcosa che sta concludendosi, immediatamente esso si trascolora nel giallo intenso dell’aurora. Il nero, allusivo del travaglio e dell’umbratilità delle esperienze umane si trasfonde nel bianco della risurrezione. Il negativo si rasserena e proprio là dove tutto sembra incupirsi spunta il positivo. Nulla finisce tutto ricomincia. Lei fissa sulla tela una realtà sfuggente come la neve che sospinta dal vento cade dai rami dell’albero e si scioglie in una pozza d’acqua, o come i flutti del fiume che sgusciano fuori dalle dita. Li hai toccati, le tue mani si sono bagnate, ma non hai potuto trattenerli.
La sua pittura è una specie di duetto; è nel contempo lettura dell’uomo e meditazione del Vangelo, l’uno accostato all’altro. Il Vangelo apre all’uomo e l’uomo invita, quasi quasi ti obbliga, a sfogliare il Vangelo. Le sue raffigurazioni nascono da una lunga riflessione e interloquiscono con un individuo nella misura in cui egli si pone in un atteggiamento meditativo e si estranea un istante dal lavoro, dal ménage quotidiano e dalla folla vociante che lo attornia.
Un’ultima osservazione mi è sembrato di cogliere. E’ come se lei camminasse sulla luce. La luce si scompone e si trasfigura in masse di colori, simili ai colori complessi dell’arcobaleno. lei non suona mai una melodia semplice; ha bisogno di accordi cromatici e usare l’intera tastiera del pianoforte. Intreccia i raggi della luce, ne ascolta il canto, e in quel momento si accorge di percorrere gli spazi dell’animo umano la luce disegna però delle zone d’ombra. Tenta allora di alleggerire il peso della luce, smuove i granellini di polvere che l’offuscano; la verità le si increspa nelle mani.
Finora lei ha avuto bisogno di raggiungere la luce passando attraverso le figure; ha trascolorato le cose in luce». [Mons. Balconi]
E giunge all’esperienza più possente e più entusiasmante. Teodolinda Varisco giunge a trascolorare la luce nella luce. Consente anche a noi di contemplare la luce in quanto tale. Ed è l’esperienza della risurrezione non come esito o scavalcamento del negativo, ma come sperimentazione diretta. L’immagine si supera è e diventa, uguale e contraria, ambigua e misteriosa. Luce su luce.
E’ nostalgia dell’origine, non d’un tempo perduto, non d’una età dell’oro, ma dell’originario, d’una patria che si possiede solo sacrificandovisi, solo nel gesto di saperla perdere per ritrovarla. E’ la patria della verità -in punta di voce si potrebbe dire persino di Dio - di quel Dio che non è facile possesso, che quando lo stringi tra mano ti sfugge, ma che quando ti abbandoni a lui si concede, forse anche nelle pieghe del dolore, ma che poi consola, rianima, risana... Per ripartire sempre di nuovo con l’avventura della vita, segnata dalla nostalgia dell’origine e della fine, della verità che sola si può possedere, lasciandoci possedere, lasciandoci custodire nel suo abbraccio benedicente». [Franco Giulio Brambilla]
«Tra questi diversi linguaggi si pone cronologicamente, un’altra esperienza: quella materica di L’invisibile è visibile, 1997. L’ineffabile si esprime attraverso le cose. La creazione rivela il creatore. E un anno dopo, in Sei tu il re dei Giudei ? Tu lo dici , 1998 torna l’esperienza materica, vissuta in modo assai diverso: i materiali, composti in un collage quasi dadaista, danno un messaggio criptico, ma comunicano con la loro cupa povertà un senso di angoscia che ben si intona con la passione di un Cristo incrompreso da chi si intesta a monologare e non vuole dialogare con Lui.
Oggi vedremo quali nuovi-vecchi-rinnovati cammini ha scelto Teodolinda Varisco per continuare a guidarci nel suo-nostro pellegrinaggio verso l’Ineffabile...» [Gabri Cattaneo]
E quest’ultima fase –sperimentale- di Teodolinda si inserisce a questo punto ed avvia al mistero, una sorta di «botola» che cattura la mente e rimanda a quell’oltre che alberga la sua irrefrenabile ricerca ideativa.
a cura di:
Prof. Alessio Varisco
Art Director Técne Art Studio