"Schegge"
«Erano volti intensi ed espressivi
dalla bellezza devastata e offesa. La stanza che ne era tappezzata, ricordava
le vecchie quadrerie.
Teodolinda mi parlava quasi senza interruzioni: “E’ un puzzle
di colori forti, anche il suo trucco è marcato come i suoi quadri”.
Nel suo parlare come un fiume impetuoso ricorrevano di frequente le parole
Cristo e Croce.
Fu allora che mi colpì la presenza reiterata, quasi di immagine coatta,
dei segni neri, che attraversavano i volti, descrivendo con il loro intersecarsi
una croce.
Il richiamo a Van Gogh e all’espressionismo tedesco giunse quasi automatico.
Ma una forma nuova e dolorante, quasi di bestie ferita, emanava dalle opere
che osservavo.
La pennellata grassa aveva lasciato solchi evidenti sulla tela, mentre nel
magma dei colori accesi, in una cromia a volte stridente, immagini fantasmatiche
emergevano.
La forma si era persa in una miriade di pennellate dal gesto nervoso e solo
lo sguardo attento riusciva a recuperarne i contorni.
Che cosa cos’era quella pittura se non una forza della natura che
nasceva dalle viscere e giungeva in superficie in colate laviche a cui la
mano sapiente conferiva un ordine misterioso e impenetrabile nell’apparente
caos?
-Sono schegge, frammenti della mia vita- aveva scritto sulla pagina di un
catalogo, costruito artigianalmente per me e che mi aveva fatto pervenire.
Lasciavo scorrere le pagine, fermandomi ogni tanto su un’immagine
che mi colpiva, improvvisa.
Una di queste era intitolata “In ricordo di Nadia”.
La deformazione della figura richiamava alla memoria ascendenze picassiane,
ma il gioco intellettuale che destruttura per costruire in maniera nuova
aveva lasciato il posto ad una visionarietà inquietante.
I segni neri di lutto ne marcavano i contorni e un fiocco rosso macchiato
era posto alla sommità del capo e ricordava l’infanzia perduta.
Poi un maschera attraente e diabolica, in una cascata di colori barocchi,
preziosi e dorati, era apparsa in un sogghigno amaro e beffardo.
La bocca disegnava una gialla linea ondulata. Pensai agli antichi sacerdoti
che indossavano maschere paurose per esorcizzare il male e il dolore.
Ai fantasmi grifagni che popolavano le facciate delle cattedrali medievali.
Le immagini scorrevano in una lenta teoria davanti ai miei occhi, mi turbavano
e mi attraevano per la loro Verità, per la loro potenza di colori,
per le emozioni profonde che trasmettevano.
Una figura ritratta di profilo richiamava la forma di una certa pittura
romanica: i contorni erano incisi e marcati; tagliati e salienti come una
xilografia.
Ieratica e assorta con gli occhi chiusi, lasciava trapelare un’inquietudine
antica, mai sopita.
Mi ritornava l’immagine a cui Teodolinda faceva ricorso nella sua
conversazione quando ci eravamo conosciute. Quella di Cristo in Croce, evocante
una simbologia escatologica: il dolore per la Salvezza.
Ora frammenti di corpi vagavano affastellati nel vuoto; segni puntuti e
laceranti.
Colori acidi esplodevano in una luce gialla e rosa dai riverberi. Il titolo
era “Invidia e superbia”.
Macchie colorate memoria di suoni, di voci, di odori che si condensano in
una presenza affettiva e protettiva e il bosco era diventato, nel dipinto
che stavo osservando incuriosita, il luogo della memoria in cui due figurine
dalle sagome tremolanti, intrise di vivi colori, erano apparse allo sguardo
di una bambina che le osservava seduta.
Gli antichi Egizi personificavano l’anima in una divinità alata,
aerea e leggera. Nella pittura di Teodolinda l’anima era energia,
essenza, spirito vitale e primordiale.
La pennellata nervosa, dall’andamento verticale leggermente obliquo,
esprimeva un’urgenza espressiva, impellente e tumultuosa.
Avevo fatto scorrere le pagine a ritroso. E, come sintesi che unifica i
frammenti, mi era apparso l’autoritratto.
Un viso sommerso in profondità remote e inesplorate emergeva da una
cascata di colori .
Era guardarsi con lo sguardo della memoria che é preveggenza e presentimento
della fine.
E il presente diventa futuro e già passato».
Prof.ssa MIMMA PASQUA
(EDITORIALISTA, CRITICO D’ARTE)