Alessio Varisco
storie e controstorie della storia dell'arte e suoi simboli
 
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" Salvor Dalì "

 

storie e controstorie della storia dell'arte e suoi simboli

 

Capitolo I

"pittura e simbolica"

Pittura e simbolica

Le tentazioni di Sant'Antonio : un "tohu wa bohu" dello spirito di un artista

Salvador Dalí è il più estremista degli esponenti del Surrealismo veristico. Catalano, influenzato dal Futurismo e dalla pittura metafisica, nel 1928 è a Parigi e s’incontra con Pablo Picasso, Mirò ed i Surrealisti. Mentre Max Ernst crea una figurazione ove il riferimento è costante al magico regno del naturale, di cui designa nelle sue opere un’interpretazione allegorica, in Dalí le immagini sono il frutto di un’incontrollabile e delirante germinazione della fantasia. Perciò le sue opere risultano animate da uno stimolo immaginifico, quasi nevrotiche, morbose in cui esuberanti apparizioni viscide e grottesche (si noti il contrasto dialettico con la poetica di Hieronymus Bosch) costituiscono -così la definisce- “l’attività paranoico-critica”.

La dimensione onirica delle immagini del pittore catalano è straordinariamente visibile nelle sue opere. La sua tecnica è strabiliante: fotografica. La precisione illusionistica della resa ha per scopo aumentare il senso di scostante sorpresa che queste assurde apparizioni intendono provocare.

L’opera “Le tentazioni di Sant’Antonio” è conservata a Bruxelles in una collezione privata ed è tipica dello stile daliniano. I pachidermi che animano i suoi sogni-visioni hanno esilissime prolunghe al posto delle gambe (simili ai baffi dell’artista). I quattro elefanti trasportano gli emblemi della tentazione: una piramide recante una discinta donna che si massaggia con provocatoria sensualità; subito al retro un obelisco trasportato da un elefante recante una gualdrappa finemente ricamata d’oro; un tempietto cinquecentesco che appare su un lato come una sorta di frons-scenae al cui interno un nudo di donna (seni e ventre sino al limite pubico) annunciato sul tetto da un “daimon”suonante la tromba; molto vicino -quasi a trascinarli come su una stessa mensola- un edificio a pianta centrale vetusto, sul cui tetto vaga Ade. I quattro pachidermi hanno un colore blu chiaro dalle caratteristiche zampe come di ragno di fiume, lunghissime ed esili. Il primo ha la posteriore destra alzata da terra, avanzante. Gli altri tre sembrano di un’altra razza: hanno le caratteristiche zanne bianche. Ora il simbolismo di Dalì attinge in maniera indiretta alla fonte dell’Apocalisse di Giovanni dove nell’apertura dei primi quattro sigilli il bianco è isolato rispetto gli altri tre. Qui l’utilizzo monocromo li assottiglia ad un’unica funzione di accompagnatori come in un circo con un colore improponibile per la tavolozza di creature terrestri. Mentre tutti vagano verso l’ovest, il primo elefante avanza verso il Santo, in direzione sud, che si difende con l’unica arma possibile: il crocifisso ricavato da due legni uniti da una corda.

Dinanzi al gruppo di pachidermi sta un cavallo bianco. Apparirebbe scontato il riferimento al capitolo Diciannovesimo di Apocalisse ed invece l’animale è composto di un pallore che lo rende più vicino al quarto del Sesto capitolo del dissigillamento. Altresì è riscontrabile un’anomalia che ha dell’impossibile: gli zoccoli del cavallo hanno un fettone continuo, come un palmo, e a livello cromatico parrebbero costituiti da pezzi di legno. Normalmente ad un cavallo i ferri rimangono circa 45 giorni, di media, e sono affrancati da chiodi che li assicurano all’unghione detto “zoccolo”.

«Li ferriamo in primavera. Poi all’inizio estate. Nuovamente verso la fine. Infine li sferriamo prima di lasciarli liberi in ottobre e i loro zoccoli crescono lunghi, divisi e fragili»[i].

I ferri sono grondanti fanghiglia simile a liquami sulfurei e sostanze tossiche; inoltre assumono dinanzi all’osservatore una posizione impossibile: sono rovesciati come se l’articolazione avesse subito una flessotorsione con rotazione di 300° dell’arto[ii].

Il destriero è rampante, con le zampe posteriori lunghissime come cavallette, dalla conformazione anatomicamente inverosimile poiché un apparato scheletrico sì fatto non riuscirebbe a reggersi con quella forma. Non appare segno sessuale nel cavallo, la coda è innalzata sopra la testa del primo elefante a coprire la piramide trasportata recante una strana “fontana”: la donna nuda (riferimento indiretto alla “prostituta” dell’Apocalisse). La criniera è fumettistica e segue la tensione del capo rivolto a sinistra, orientata verso la parte destra del quadro ad indicare il suo seguito: i quattro pachidermi[iii].

Il destriero sbuffa e dalle sue nari esce fumo come nubi. La testa del cavallo è di profilo e ci consente di scrutare un’anomala dentatura: difatti i cavalli non hanno una dentatura continua come nell’uomo. Inoltre la positura rampante dell’equino ci richiama alle Scritture (“si sente lo sbuffare dei suoi cavalli; al rumore dei destrieri ... trema la terra”[iv]).

Parrebbe rivolto al Santo -intento nel suo romitorio desertico[v]- una punizione come

nell’AT ove Eliodoro è punito dagli zoccoli di un cavallo del cavaliere terribile[vi].

I quadri di Salvador Dalí sono popolati di relitti di vita organica spenta da tempo immemorabile: ossa, frutti mummificati, fossili, conchiglie che sembrano muoversi nel deserto con cautela come bruchi. Qui il cavallo è rampante con gli anteriori in una posizione innaturale presaga di chissà quale martirio per il confessore di Cristo che riconosce con la pratica del suo digiuno un falso cavallo-bianco, pallido[vii].

La citazione dell’Apocalisse è rovesciata: il cavallo biancastro qui è preludio o manifestazione non già del Giudizio Finale ma dell’opera di creature sataniche.

Inquietante, ad aumentare ancor più il paqoV crescente che sembra schiacciare l’eremita agonizzante con l’unica sua arma contro le visioni tremende, un’altra immagine analoga di un frate che scaccia un pugile da lontano. Il gruppetto si trova poco più verso l’osservatore oltre le esili zampe dei pachidermi: entrambi paiono fantocci. Più in là sotto al secondo un altro pupazzo che si porta un bimbo per mano. E fra le zampe del quarto elefante un lenzuolo svolazzante sotto cumuli di nubi agonizzanti bufere. Forse l’immagine “ad libitum” del conflitto con l’ignoto ante-divino? Una lotta dell’umanità che protegge, come nel tracciato dell’Apocalisse giovannea, il proprio figlio...

Ogni figurazione ha una carica simbolica esaltata dall’utilizzo cromatico che crea una sorta di iridescenza intorno a tutte le creature terrificanti di questa visione. Per contro l’oscurità, il dubbio sotteso e cavilloso delle tentazioni, contorna di buio Sant’Antonio che capendo la reale situazione si genuflette nudo, con già l’aureola per la sua lotta interiore combattuta con abilità. Il vuoto gli sta intorno, lo isola. Un masso pare gli abbia incastrato il polpaccio della gamba sinistra su cui era genuflesso. Dinanzi a lui una terra lunare spoglia, infruttuosa senza naturalità, aliena alla creazione -una sorta di “tohu wa bohu”- ed un teschio ai suoi piedi ad interrogarlo se valga realmente la pena proseguire. E lui invoca l’ausilio in quel suo simbolo a farsi cruce-signato per superare quella tribolante prova.

«Salvador Dalí porta nella visione onirica e piena d’implicazioni sessuali un suo delirio di grandezza, un’ampollosa retorica spagnolesca e neo-barocca, una ripugnante mescolanza di lubrico e sacro, un cinico ribaltamento di bolscevismo trotzkista di Breton in un ambiguo miscuglio di reazione e anarchia»[viii].

Orbene per la penna dello storico non è personaggio positivo, anche se sappiamo che la positività del Surrealismo sta tutta nello sforzo di applicare allo spazio reale ed oggettivo uno “psichismo” particolare, uno sguardo profondo in sé dell’artista a svelare senza taboo i sentimenti contrastanti e visionari, la fame soterologica dinanzi la finitezza e la negatività delle guerre, della povertà.

E’ la rivincita del sogno, del dare immagine anche agli incubi, alle tentazioni di ognuno, di dare simmetria al noumeno sul dilagante ed imperioso “razionalismo”. E’ un processo di depurazione del “cartesianismo” ora risolto in una sorta di scrittura automatica dell’inconscio. Si struttura così l’analitico processo di dare colore al “fantastico”.

Non è un caso che Jung, che per la critica ha assunto il rango di traduttore dell’inconscio collettivo, ha scritto del Picasso surrealista riconoscendo un’abilità speculativa alla poetica onirica del Movimento ed includendo anche, attraverso gli studi picassiani, quest’arte che si trova agli antipodi del “cartesianismo”. Il surrealismo è proprio questo ed i suoi prodotti, le opere, “un conflitto che si combatte -cito l’analisi dello storico dell’arte Argan- sotto gli occhi sgomenti di chi osservano”.

In quest’ambito il discorso apocalittico trova un suo statuto epistemologico articolato nelle molteplici figurazioni daliniane che scoprono ad ogni passo il gusto della visionarietà, che non è follia ma parte dell’umanità. Dalí è “Homo somniator”.




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[i] M. Spagg, op. cit., 38.

[ii] Allusione forse al tipo di tortura prospettata al Santo alfine di costringerlo ad abiurare per evitare un simile trattamento? Un’ipotesi alquanto probabile l’incubo ricorrente, l’angoscia per il proprio destino, l’inquietudine; il pittore ha caro il ricordo del crocifisso dipinto da San Giovanni della Croce, mistico che ben conosce ed ha introitato in tutta la sua ricerca estetica.

[iii] Vorrei che si notasse il simbolismo aritmetico mutuato allo schema dei Quattro sigilli aperti dall’Agnello Bianco; è tipico dell’«arte apocalittica» l’inserimento di elementi scritturistici “de-contestualizzati” ma riscopribili per analogia.

[iv] Ger 8,16 nel brano delle minacce alla vigna.

[v] Più che nel deserto il Santo parrebbe su di un Pianeta desertificato, dal cielo terso nella parte sinistra (sopra al Santo) mentre presago della tempesta (tra le zampe dei pachidermi bufere) nel lato opposto.

[vi] «Si ode il clangore dei ferri sulle pietre al vento». M. Spragg, Where rivers change direction. University of Utah, U. of U. Press, 1999. 215.

[vii] Noi sappiamo che l’aggettivo “chloros”, dal greco “verdasto”, designa anche “il pallido”; nell’antropologia simbolica occidentale il “cavallo bianco pallido” è presagio di morte, mentre il “bianco splendente” -il “mandato da Dio”- oppure è -in taluni casi- persino Dio stesso (vedasi l’esperienza cristica di Ap 19 e relativa analisi).

[viii] G. C. Argan, op. cit., 334.

8. C. ZERVOS, intervista e questionario agli artisti parigini neI 1935 per un numero speciale di “Cahiers d’Art”.

Prof. Alessio Varisco

magister artium

http://www.alessiovarisco.it

Técne Art Studio, Todi, dicembre 2000

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