Chiara
Rita Benedetta : una passione per i classici
Il conflitto fra l’aspirazione e il disconoscimento della
bellezza, sia essa intesa come causa formale portatrice di
eufonia e consonanza assolute che come compimento hanno il
destino dell’uomo, è sotteso a tutta la creazione artistica
di Chiara Rita Benedetta. Emerge in quella lieve sensazione
di inquietudine che l’ambiguità delle immagini adombra
le sue opere la sua carica ancestrale.
Tutto ha inizio nei classici. Chiara con intelletto ed amore
affina la sua arte, a margine dei manuali al Ginnasio e poi
al liceo, e traccia segni “provati” guardando la mamma dipingere.
L’emozione che si ha nell’osservare le sue creazioni è
stupore misto a gioia per come si possa descrivere sensazioni
profonde che vengono dalle letture.
Il tema di una bellezza assoluta cui offrire religiosamente
tutta la propria forza poetica, nonché il valore di
una tecnica istruita sottoposta a lenti processi di raffreddamento,
si sfamano tanto di rigore morale, quanto di capacità
di riproduzione artistica percepibile in ogni lavoro, seppure
giovanissima, -e soprattutto in quelli a tecniche miste, di
vaste dimensioni- ed in ogni frammento della pittura, senza
mai cedimenti, perdita di ritmo o di intensità trovata.
L’ansia spirituale sottaciuta in questo misticismo della
pittura non può non cozzare dolorosamente con la scarsa
resistenza e debolezza dell’uomo. Così l’ostinata resistenza
della insipidezza e della grossolanità racchiuse nel
quotidiano delinearsi delle congiunture trova spazio in un
mondo ideale dove il classico ci è modello. L’identica
improrogabilità del vivere e del dipingere può
introdurre elementi eterodossi rispetto all’intuizione originaria
di un’immagine/forma iniziante del processo creativo. Trattasi
di elementi degni di attenzione che, sicuramente, abbozzano
quadri globali diversi da quelli prospettati dal mondo. All’artista
il compito più alto di guidare, fino a suscitare -anche
all’interiore dei percorsi freddi- variazioni iconografiche
e pittoriche importanti soprattutto sul piano iconologico.
La variazione dal tema dei classici (cui si affianca, come
si vedrà, il concetto della poesia) nasce, in questo
senso, come motivo propriamente pittorico ed immerge le sue
riflessioni in situazioni di tipo psichico, delineandosi come
una nuova e svagata immaginativa.
Qualcosa di somigliante è del resto risaputo alla
pittura. Si pensi al Manierismo che ha al suo fondo questo
umanissimo contrasto formale e morale fra il primato delle
cause formali e l’incapacità epocale di uguagliarla.
Dissidio che si trascinerà fin agli albori del Barocco,
rappresentandosi anche più diffusamente come divario
tra terra e cielo, fra vita e morte. Paradigmatico il Canestro
di frutta del Caravaggio che segna forse l’istante più
acuto e simbolico di questo patimento. In esso il tema della
magnificenza naturale assume significati ontologici nell’evidenziazione
dell’inizio di un suo acre e pungente logoramento. Nel Bacchino
malato il tema di un’ambigua verità suggerisce, con
il precedente, lo scandaglio di un mondo interiore in cui
bellezza e verità vivono come desiderio e bisogno inappagabili,
aggredibili dal dubbio, dal senso di smarrimento e di paura.
E così che la bellezza, portatrice dell’essenza stessa
della vita, finisce col confondersi col senso della morte
e ad adombrarne il presagio. Disgiunta da un destino divino,
la bellezza non è un assoluto, ma la nostalgia di esso.
E qui che il sentimento può anche smarrirsi, o la ragione
intridersi di ironia.
Anche questi sono spazi della creatività. L’immagine
che la mente intuisce e intravede e subito perde, viene trattenuta
dalla pittura, ma la riduzione inevitabile dis-vela una bellezza
guastata e in ciò più intensamente e psicologicamente
vera. E come la frutta in Caravaggio, in altro tempo e in
altro ambito, la Leda in L’amore coniugale di Moravia, al
quale non fugge mai la smorfia, o il gesto, o il tic che,
modificando quasi lievissimamente un’immagine, in realtà
la stravolge rivelando, non senza fare sorgere inquietudine,
un’inconcepibile e celata potenza generatrice. Di confronto
tutto immateriale con la autenticità fa sorgere il
dramma e, soprattutto, l’inquieto e amletico interpellarsi.
E non è accidentale che l’Amleto sia corrispondente
a livello cronografico al Canestro di frutta; così
come non è involontario che Chiara Rita Benedetta delinei
nelle sue Genesi un’atmosfera shakespeariana. «Il resto
è silenzio» pronuncia Amleto prima di esalare
l’ultimo respiro. E il silenzio cala dalla tragedia di Amleto
a quella intima di ogni possibile spettatore; così
come sprigiona il Canestro di frutta e così come emanata
da qualsiasi opera umana che metta in congiunto e sfuggente
rapporto l’esistenza e la morte, l’ordine ed il caos, il naturale
e l’insensato, il celestiale e il diabolico.
Chiara ha bisogno di silenziosità poiché nello
spazio della sua tela la lotta tace. Vede ancora i dissidi,
ma ora può rivolgere lo sguardo verso l’alto. Tutto
ciò mi riporta recentemente Chiara Rita Benedetta,
il carattere delle figure è l’infinitezza, a volte
evocante forme dell’infanzia, il senso di sempiterno che ha
sconfitto il frastuono regge lo spazio in un astratto non
essere. In questa dimensione si fa largo il volo in silenzio.
Fino a dimenticarsi di sé e del mondo, come una mistico
divendo Altro. Ed il conflitto tra spirituale e corporeo è
irrisolvibile. Da qui il tragico. Ma anche la abbondante forza
dell’immaginazione.
L’irreparabilità del combattimento e la successiva
dimensione tragica stabiliscono i termini della “questione
pittura” in Chiara Rita Benedetta. Il silenzio non è
pace, né sosta, piuttosto uno spazio e un tempo ove
“i demoni” (nell’accezione greca del termine) non facciano
opposizione di guardare verso l’alto, e l’artista abbia la
capacità di registrare la “sensazione dell’eterno”.
La pittura è il luogo di questo spazio e di tale tempo
differenti, in cui totalmente si destabilizza ed acquista
valore oscuro e canzonatorio. Ma questo “sconcertamento” è
solo un’immagine periferica della pittura di Chiara Rita Benedetta,
la conseguenza non marginale di un radicato atteggiamento
poetico. Si desidera confermare che nessuna volontà
precostituita influenza questo scoordinamento spaziale e questo
sconcertamento dello spettatore, che sono come fatti sorgere,
irrimediabilmente, da una maniera - questa sì relativa
a un programma: di mettere in chiaro e quindi rappresentare
ciò che l’immaginazione mette insieme quando la lotta
fa silenzio e lo sguardo si rialza. La pittura di Chiara Rita
Benedetta non va, allora, vagliata meramente nei suoi aspetti
di comunicazione.
Le sue ragioni sono sempre da scandagliarsi nel recondito
della riflessione solitaria dell’artista e quindi all’interno
della pittura. E per questo le sue opere sono certamente ineplosive
e non esplosive, da leggersi in margini psicoanalitici e quindi
in rinvio anche all’inconscio, ma soprattutto al principio
fra esso e la coscienza, dove l’Artista, come in una visione
onirica, si sottrae dalla natura, dal mondo e persino da sé.
Come Alice entra nello specchio, dove tutto è già
adocchiato, ma dissimile, e la consapevolezza stessa delle
cose si perde nell’ambiguità del loro indecifrabile
rendersi noto. Questo è forse il tema regnante della
poetica di Chiara Rita Benedetta: sciogliere aspetti ed enti
da quella che lei chiama “Richiami del Mito”, perchè
consentano di intravedere “un altrove illimitato”, a cui l’arte
volge la sua attenzione.
A tale scopo Chiara Rita Benedetta adopera ogni mezzo pittorico
atto all’individuazione dell’indefinibile e weiningeriana
tenacia delle cose. La stessa costruzione prospettica, pure
fortemente presente all’artista, procede continuamente negata
dall’intersecazione di piani, così che si viene ad
abbozzare uno spazio inverosimile (ma indiscutibilmente non
immobile), dove non è acconsentita una descrizione
incessante o comunque sorretta da uno allargamento razionale.
Si traccia così, da subito, una posizione anticlassica
ed antirinascimentale, per un verso rinviabile alla narrazione
della pittorica senese –del 1300-, ma soprattutto apparentabile
a tutta la poetica dell’assurdo nell’arte e nel teatro del
Novecento. L’evocazione non di oggetti o figure, ma della
loro enigmaticità, è certamente dechirichiana.
Come De Chirico Chiara Rita Benedetta pare non conoscere le
cose che dipinge, o quanto meno non accoglierle come dati
incontrovertibili dell’oggettività, bensì come
nuove e successive occasioni di scandaglio di un mondo tutto
da decifrare, perchè enigmatico. Ogni cosa pare indossare
«due aspetti: uno corrente quello che vediamo quasi
sempre e che vedono gli uomini in genere, l’altro lo spettrale
o metafisico che non possono vedere che rari individui in
momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica. [G.
De Chirico, Sull’arte metafisica, in ‘Valori Plastici’, n.
4-5, 1919]». La meta-fisica, nel senso più letterale
del termine, quale metodo per restituire possibile una vera
conoscenza del mondo presente è fortemente sostenuta
da Schopenhauer che la considera «un sapere attinto
dal reale mondo esteriore e dall’esplicazione che di questo
fornisce il più intimo fatto dell’autocoscienza»
[A. Schopenhauer, Die Weltals Wille und Vorstellung, voi.
I!, librol, cap. XVII, Leipzig, Brockhaus 1859, p. 200].
La relazione con la metafisica, nel senso sopra descritto,
vale a contenere un ambito di rimando a cui è doveroso
far cenno, senza, per altro spingerci oltre. Le stesse parentele
con il Surrealismo non possono che essere accolte indeterminatamente,
continuando insistentemente che in Chiara Rita Benedetta una
spiccata inclinazione ad una pittura di pensiero, non direttamente
in connessione col miraggio o consumabile nell’inconscio.
Si tratta piuttosto, come si è detto, della comprensione
dell’enigmaticità delle cose, con il successivo spaesamento
che ne deriva. Il carattere fortemente dinamico ed energico
che, comunque, tale situazione mantiene riferisce, se mai,
consanguineità con il linguaggio e la struttura formale
non con la poetica - dei futuristi.
Il ritmo incalzante, le strutture rigorose e l’inclinazione,
specie nelle opere ultime, per una pittura filamentosa sono
tutti ingredienti del primo Futurismo e possono, nel nostro
caso, a schiarire una situazione artistica complessa, ricca
di occorrenti e persistenti richiami storici che possono aiutare
ad abbracciare la sostanza della storia pittorica di Chiara
Rita Benedetta e la sua non estraneità alla tradizione
lombarda.
In questo senso - e anche in riferimento al futurismo (n.d.r.:
non si dimentichi che Chiara è figlia d’arte, la madre
è Pittrice espressionista ed il nonno un allievo di
Pio Semeghini, Arturo Martini e Marino Marini all’ISIA monzese)
“miscelato subito, e per necessità espressive, ancor
prima che per necessità culturali al cubismo” - è
doveroso ripensare soprattutto a Sironi, alle sue
angolose volumetrie, alle corrispondenti spazialità
e soprattutto al suo periodo metafisico, nonché, come
si è detto, ai suoi lavori futuristi.
Un’opera come Autoritratto trova nel contesto che si è
venuto fin qui delineando, alcune delle sue ragioni fondamentali.
La convergenza delle diagonali sul piano quasi frontale della
grande immagine consente - unitamente al cono della luce dei
fanalini e alla filamentosità della pennellata gessosa
- non improbabili raffronti col Futurismo. E per restare all’interno
dei riferimenti già fatti, pare lecito guardare al
Cavallo e Cavaliere di Sironi (1915). In Ciclista la situazione
spaziale è comunque diversa, per un allentarsi della
tensione (si vorrebbe dire anche del rumore) che concede alle
forme di delinearsi in una spazialità più enigmatica
che compressa. Il valore metafisico delle forme - come non
far cenno a Carrà? - è volto alla definizione
di una situazione resa sconcertante non solo e non tanto dal
dito nel naso, quanto dall’attuarsi di ciò che già
si è detto in merito alla variazione della forma. Non
un punto di vista, ma più punti di vista; non un dato
verisimile, ma il continuo gioco della deformazione, per consentire
la percezione di nuove e recondite verità di quell’altrove
indefinito cui, come si diceva, Chiara Rita Benedetta si volge.
In questo senso il dito del naso ha lo stesso valore dei piani
sghembi, di quelle porte che non potranno mai chiudersi, ma
anche della smorfia della Leda di Moravia o dell’iniziale
guasto della frutta di Caravaggio. Situazioni in cui il tempo
non scorre, perchè tutto avviene lì, senza che
sia possibile considerare il prima e il poi. Esiste solo il
presente dell’immagine dipinta e la sua possibilità
di evocare eternamente l’ambiguità della vita.
Chiara Rita Benedetta deve il suo debito formativo ai classici:
Ifigenia in Taurine, la tradizione greco-mitologica è
permeata in tutta la poetica di Chiara, il tema della caduta
in un abisso (o del risucchio da esso) è ancora sironiano.
L’oro luminoso della donna, o forse con le braccia levate,
tenta di risalire; la memoria dell’adulto ritrova l’inquietudine
del bambino di allora. La caduta di Chiara Rita Benedetta
sconfina nell’assurdo, e questo è logicamente estraneo
a Sironi. Ma in Chiara Rita Benedetta vi è anche l’influsso
del Nord, e soprattutto dell’Espressionismo tedesco. Quest’opera
si colloca precedentemente alle altre di questa rassegna.
Vale ad individuare una poetica, ma è artisticamente
più immatura. Chiara Rita Benedetta qui non ha ancora
scoperto sino in fondo le potenzialità del segno, e
soprattutto soffre di horror vacui. Nelle altre opere la liberazione
dei valori propri della pittura e del colore gli consentiranno
di dilatare, senza per questo rinunciare a comprimere, gli
spazi, così che il tema dello spaesamento non sarà
consegnato solo ad un’azione, ma ad ogni elemento della combinazione
e ad essa stessa nel suo insieme.
Il tema della caduta, o della gravità dei corpi, ricorre
in ogni opera di Chiara Rita Benedetta. Figure senza peso,
liberate dalla corporeità, aleggiano (o nuotano, o
annaspano) nel cielo in una giostra che è la vita.
Il silenzio esercita il dominio, assoluto, mentre i dati minimali
della luce evocata dai filamenti cromatici che escono dai
suoi supporti, assumono valore emblematico, forse simbolico.
Le scene si delineano come apparizioni sacre ed è
fuor di dubbio lo scontro fra l’elemento celestiale e il dato
accidentale. Il dubbio amletico non perde vigore, ed anzi
si accolla delle diverse apparizioni un’intonazione di struggente
nostalgia.
I grandi occhi dei suoi “Autoritratti” chiedono: in quale
luogo?, mentre l’attesa pare dominare i silenziosi dialoghi
e lascino pure intravedere un altrove indefinito. Lo spazio
–determinato con decisione dai gesti che paiono richiamare
una rinnovata action painting- evoca nuove vorticose forme
che si muovono tra loro in sospensione, creando un’armonia
obliqua superiore. Volano in cerca di un cielo immenso medievale
che non trovano ancora nei miei dipinti. Là il frastuono
della rissa è lontano. Silenzio.
L’immagine ritratta è al centro della composizione,
ed una serena impassibilità o stasi ispira i suoi lineamenti,
configurandola come una santa della pala d’altare. Ma poi
tutto è sconvolto dall’apparizione (angelica o demoniaca)
che irrompe come contrasto, disordine. Ritornano alla mente
due versi di Paul Valéry: (...) «deux dangers
ne cessent de menacer le monde:/l’ordre et le désordre».
Nella Donna l’elemento frastornante (le désordre) non
è tanto la mano che distrattamente finisce nel vaso,
quanto quella sorta di trance in cui la donna pare persa e
che specifica il gesto sbagliato. Ma ancor più interessante
è il contrasto fra la rigida e geometrica spazialità
del divano con la linea curva della figura. Tutto ciò
non ha un tempo, solamente accade, disvelando in sé
l’allarmante rapporto fra la razionalità (simboleggiata
dalla rigida, anche se improbabile, geometria) e il trance,
o sensuale smarrimento della coscienza.
In Donna blu, come nella Grandi nuotatrici di Carrà
e nelle Piccole nuotatrici di Carrà, Chiara Rita Benedetta
sfida, con il medesimo rigore, tematiche nuove. Il nascondimento
come dato ineludibile della permanenza in vita, definisce
modificazioni tecniche importanti, quali il ridursi in frantumi
leggero ed impalpabile della pennellata, curvilinea, l’articolarsi
più mosso del segno e la scoperta di un colore più
denso, più sporco. Ma il nascondimento ha valore anche
a rivelare sembianze differentemente inavvertibili, i molteplici
e possibili volti in Donna blu, la natura angelica dell’umanità,
e comunque un’atmosfera vibratile, attinente di un effusivo
e lieve ascoltarsi mentale. Il riferimento alle Nuotatrici
di Carrà del 1910-12 è un dichiarato omaggio
di Chiara Rita Benedetta al Futurismo, ma anche la denuncia
di un’affinità insospettata con molta pittura contemporanea,
in cui si pone in termini discutibili un nuovo rapporto con
la figurazione. Ma è opportuno serbar ricordo che dalla
figurazione Chiara Rita Benedetta disloca, con un percorso
che è quindi in senso contrario a quello cui si accennava.
E la sua diviene una figurazione mentale, si è visto,
volta da un lato a scoperchiare il vero ambito della vita
e dall’altro a dis-velarne l’inganno. Il firmamento si può
desiderare, ma non possedere poiché «da una parte
c’è il sole e dall’altra parte il nulla!» [Ifigenia
in Tauride].
prof. Alessio Varisco
art director Técne Art Studio
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